Vincent Van Gogh: 125 anni fa prendeva la morte per andare in una stella

 Una vita per l’arte e l’arte come unica ragione di vita: in questa frase si può condensare il senso dell’opera di questo genio, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo proiettato lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi

 

VAN GOGHIl 29 luglio 1890 moriva l’artista che più di tutti stravolse l’arte, riuscendo, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi che fendono cieli blu scuro, dai paesaggi dalla chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore dell’arte giapponese fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario di un uomo che, nella vita e nella pittura tutto sperimentò: “Campo di grano con volo di corvi”, dipinto poco prima di spararsi nei campi di grano sferzati dal vento di Auver sur Oise.

 

Personalità complessa quella di Vincent Willelm Van Gogh, nato a Zundert Groot in Olanda il 30 marzo 1854, per uno strano scherzo del destino esattamente un anno dopo un fratellino nato morto che portava lo stesso nome, fatto che influirà molto su di lui, facendolo sentire un usurpatore della vita di un altro e portandolo, spesso, a cercare nel sacrificio di se stesso a favore dei più umili e dei diseredati, come la prostituta Sien, come i minatori del Borinage, una sorta di riparazione ad una colpa ancestrale, ad un peccato originale che, suo malgrado, pesava sulla sua anima come un macigno.

 

Dopo un’esperienza fallimentare come commesso nella galleria d’arte degli zii e, successivamente, un breve e sfortunato periodo di studio presso la scuola di teologia per diventare pastore calvinista come il padre, Vincent trova la sua vera strada, il percorso da seguire: la pittura e, sostenuto economicamente dall’amato fratello Theo, inizia il suo cammino in questo difficile mondo, stroncato dai maestri di disegno, marchiato come un imbrattatele, allontanato dalle accademie incapaci di comprendere le grandi trasformazioni artistiche del XIX secolo e legate a modelli classicistici, apprezzato soltanto dai tanti suoi compagni di pittura: Touluouse Lautrec, Pissarro, Gauguin. Proprio Pissarro, anni dopo la morte di quel ragazzone olandese dalla barba e dai capelli rossi, che era capitato a Parigi per scoprire i segreti della pittura avrebbe scritto: “Quando lo incontrai la prima volta mi dissi o che sarebbe impazzito o che ci avrebbe superati tutti. Non avrei mai creduto che avrebbe fatto entrambe le cose”.

 

VAN GOGH GIRASOLIUna vita per l’arte e l’arte come unica ragione di vita: in questa frase si può condensare il senso dell’opera di questo genio, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo proiettato lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.

 

 “Per il mio lavoro, io rischio la vita, e la ragione vi è quasi naufragata a metà“scriveva Vincent in una lettera a Theo, frase che meglio di tutte può esprimere il prezzo che questo uomo stava pagando ad un’arte che, mese dopo mese, diventava sempre più esigente, portandosi via il suo equilibrio, la sua forza, fino alla richiesta dell’estremo sacrificio: quello della vita.

 

Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.Tante ipotesi sono state avanzate sul suicidio di questo artista, non ultima quella di una follia degenerata a tal punto da spingerlo a rivolgere la rivoltella contro di sé.

 

E’ bello pensare, invece, che non gli bastasse più che le stelle, tante volte dipinte, restassero lontane da lui e, consapevole di avere dato a quell’umanità la parte migliore di sé, abbia semplicemente deciso che era venuto il momento di raggiungerle per sempre e di farlo in mezzo alle spighe di grano che hanno la loro stessa luce, che hanno il loro stesso colore, solo, sotto l’immensità del cielo. I critici, il pubblico, il mondo interno, in questi 125 anni hanno celebrato l’artista, il genio, tributando alla sua grandezza tutti gli onori che si devono a chi ha scritto il suo nome nella storia dell’arte e della cultura. Credo che a Vincent, schivo e sensibile, malinconico ed introverso, tutto questo sarebbe pesato.

 

VAN GOGH2Mi piace, quindi, ricordarlo, in questo anniversario, con un’immagine carica di significati: due tombe, sgretolate dalle intemperie, due lapidi di pietra grezza in un piccolo camposanto di campagna, senza fiori, ma coperte da un manto di edera. Su una è scritto: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854–1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh – 1857-1891”. Sono le tombe di Vincent e Theo che, vicini nella morte come lo sono stati nella vita, dormono il loro ultimo sonno, in un silenzio quasi irreale, visitati dai corvi e da qualche raro passante, distanti dalle luci e dai rumori della città, in un angolo remoto dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.

 

Barbara Castellaro

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