Un’appassionata operazione di crowdfunding per guardare dentro se stessi

Esce nelle sale “La terra buona” di Emanuele Caruso

Con una vasta operazione di crowdfunding – un budget di 195.000 euro e 500 sottoscrittori pronti a divenire coproduttori, quote minime da 50 euro per un totale di 80.000 euro, gli altri importanti aiuti da parte di Egea, della Film Commission Piemonte e della Cassa di Risparmio di Cuneo – il trentatreenne regista Emanuele Caruso è riuscito a varare il suo secondo film, La terra buona, che con il passaparola e con la lenta ma approfondita ricerca del pubblico e delle sale dovrebbe ripetere il successo di E fu sera e fu mattino, caso cinematografico scoppiato tre anni fa. In una settimana di proiezioni in provincia (anche qui il cammino è inverso, prima questa la metropoli poi) i biglietti staccati sono stati 15.000, l’opera precedente in un anno era arrivata a oltre 40.000. Senza assolutamente dimenticare gli altri aiuti non da poco offerti durante la preparazione e la lavorazione del film, da Eatily che ha offerto quantità grandiose di cibo pronte a sfamare la troupe, al Parco Nazionale della Val Grande, ai confini con il territorio svizzero, 152 km quadrati pressoché incontaminati dalla civiltà – dove la storia è stata trasportata dalla primitiva Val Maira cuneese -, che ha messo a disposizione scenari incomparabili e un efficace supporto logistico, agli abitanti dell’ultima frazione raggiungibile in auto, Capraga, dove nulla esiste che si possa definire moderno, che per due mesi, nel luglio e nell’agosto del 2016, hanno aperto le loro case.


Tre storie che confluiscono nel film, la sceneggiatura è firmata dallo stesso regista con la collaborazione di Marco Domenicale, tre storie diverse tra loro, quasi un pretesto. Ma pretesto non sono. In questa natura che non conosce contaminazioni, vive il vecchio padre Sergio, benedettino, che in anni di eremitaggio ha costruito una biblioteca di oltre 60.000 volumi, con lui un oncologo, Mastro, e il suo assistente, sfuggiti dalla città e dalla gente che li ha condannati per il loro desiderio di sperimentare e di conoscere se al di là della medicina ufficiale vi potessero essere altre cure contro i tumori. In questo eremo, arriva un giorno, all’insaputa di tutti, anche della sua stessa famiglia, una ragazza, Gea, in compagnia di un amico forse innamorato di lei, Martino. Gea è malata terminale, forse con la ricerca di un’ultima naturale medicina è alla ricerca di se stessa, di un rapporto col padre, incompreso, infelicemente concluso. Nel racconto e nella regia di Caruso che dimostra di saper scavare con esattezza nei propri personaggi, s’intrecciano i destini, si consolidano i caratteri, si guardano con occhi nuovi l’ambiente e la cura per il cibo, la sua esatta scelta, si afferma quella spiritualità della vita che tutti dovremmo fare più nostra. Si va a zigzag tra le speranze e le delusioni, si incrociano mai a caso certe sensazioni e i discorsi forti della vita e della morte, si tende a qualcosa oltre. Martino forse è il personaggio che meglio finisce col comprendere e attuare la “filosofia” del regista, l’invito a stabilire una pausa su quanto abitualmente ci circonda, è l’occhio dello spettatore, il tramite e il collante delle tre diverse vicende: ma il film non si sbilancia e non vuole dare risposte, ed è uno dei suoi meriti più immediati.


Superate in maniera brillante le difficoltà di girare in condizioni più che svantaggiate, il percorso s’è fatto sicuro. E quel che più salta all’occhio è la passione che circola (“I soldi sono pochi, e chi li ha dei soldi per pagare un fattorino che consegni il film nelle sale? è chiaro che ci vado io a consegnarlo”). Certo, a tratti alcune interpretazioni appaiono troppo urlate, certa gestualità fuori luogo, la musica che nella prima parte invade binari western alla Leone rimane incomprensibile, la scrittura corre forse in maniera troppo lineare: ma dalla semplicità del racconto può in non poche occasioni nascere una costruttiva robustezza. Convince soprattutto la naturalezza dei due ragazzi, Lorenzo Pedrotti, già con Caruso nell’opera prima, e Viola Sartoretto, torinese; e dopo l’ultima immagine si vorrebbe che il cinema si ricordasse di più di Fabrizio Ferracane, il medico in fuga, indimenticata punta d’eccellenza tre anni fa di “Anime nere” di Francesco Munzi.

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