Un paese, due chiese e una campana di troppo

L’appuntamento era al quadrivio, verso l’ora di pranzo. Don Luigi, riposti nell’armadio i paramenti della Messa, inforcò la sua vecchia “Atala” nera e pedalò con vigore verso il luogo del “rendezvous”

In tasca portava, bene in vista, una copia de’ L’Avvenire, come pattuito, un segno di riconoscimento che, difficilmente, passava inosservato, essendo ben pochi i lettori di quel giornale a Borgo Vallescura. Don Luigi – detto anche Luison, data la sua non proprio esile corporatura dovuta ai piaceri della tavola – non si sentiva davvero a posto se non dedicava almeno un’ora al giorno alla lettura del suo amato “quotidiano di ispirazione cattolica”. Dai tempi del seminario, sul finire degli anni ’50, quando la lettura de “L’Italia” era d’obbligo per dare un’occhiata ai fatti del mondo, non aveva mai mancato di un giorno l’appuntamento all’edicola con il “suo giornale”. Così, quando gli era toccato scegliere un segnale convenzionale, non aveva avuto dubbi: esibire L’Avvenire! A volte, rimuginando durante le sue notti insonni o passeggiando sul viale che portava dal sagrato della chiesa dedicata a San Maurizio fino al piccolo camposanto, pensava a come fosse finito lì, in quel borgo collinare di alcune frazioni, tante case – la maggior parte vuote e sfitte – e poche persone. Nessuno l’aveva informato, tanto meno la Curia, che quello era un paese con due chiese, due parroci e una, infinita, lite su chi dovesse fregiarsi del titolo di arciprete. L’età contava poco nella disputa, incentrata piuttosto sul titolo d’onore di cui fregiarsi e sull’esercizio dell’effettiva giurisdizione su entrambe le realtà religiose. Chi doveva rappresentare San Maurizio e San Rocco? Da oltre mezzo secolo la questione era irrisolta e, con ogni probabilità, difficilmente risolvibile, considerato che tutti i parroci che si erano alternati nel paese si erano inspiegabilmente calati nel ruolo di duellanti – seppur in forme incruente – appena insediatisi. Anche i cinque vescovi che avevano, uno dopo l’altro, retto la Diocesi – nonostante l’impegno e la dedizione impiegati per trovare una soluzione definitiva a quell’increscioso braccio di ferro – si erano dovuti arrendere, chiudendo un occhio e rivolgendo le loro attenzioni a ben altri problemi. Così, a Borgo Vallescura, tutto proseguiva come sempre, compresi contrasti e disaccordi, dissidi e screzi tra lui, padre Luigi Borlotti, e Don Carmelo Greco. Da quasi un lustro entrambi i sacerdoti erano arrivati in paese provenendo, il primo, dalla campagna e dalle risaie della “bassa”, e il secondo dai monti della Sila. Entrambi avevano ottime referenze, stando a quanto aveva detto, presentandoli ai parrocchiani, il Vicario del Vescovo, don Anacleto Rugosi. I caratteri dei due sacerdoti non erano, però, delle più facili. Se padre Borlotti era scaltro, dotato di furbizia contadina e di spiccata arguzia, Don Greco era testardo come un mulo, scostante e poco incline ai compromessi. Quando il titolare della chiesa di San Maurizio scoprì che il suono melodico della campana era stato sostituito da un 33 giri che, opportunamente collocato sul piatto del giradischi, riproduceva i rintocchi che ritmavano lo scorrere della giornata dei credenti, dall’aurora al crepuscolo, dall’Ave Maria all’Angelus, si adirò molto. Nessuno l’aveva informato che la campana era stata rubata una decina d’anni prima e che, da quel momento, si era deciso di sostituirne i ritmi con un disco.
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Dalla canonica, i suoni salivano fino agli altoparlanti collocati sul campanile e si diffondevano nell’aria, richiamando i fedeli. Così, con qualche fruscio di troppo dovuto all’usura, i momenti più importanti della vita della loro comunità cristiana – dai lutti ai matrimoni, dalle messe alle festività – venivano scanditi grazie a quel vecchio vinile che “girava” sopra un ancor più vetusto radio-giradischi della “Phonola”. Padre Luigi Borlotti non aveva accettato di buon grado quella situazione. Anzi, era ossessionato dall’assenza di quello che per lui era un “sacro bronzo”. Una chiesa che si rispetti deve poter chiamare a sè i suoi parrocchiani. E un campanile orfano della campana è come un frate magro e mingherlino. Non è che non ce ne siano, intendiamoci: è che si tratta di un segno di povertà”. Aveva un modo tutto suo di esprimersi e non era proprio il caso di contraddirlo dal momento che si alterava, stizzito, diventando rosso in volto come un peperone maturo. Il paese era diviso in quattro frazioni, con il centro più importante – che dava il nome all’intero comune e ospitava il municipio, l’ufficio postale e l’unica osteria – in alto, sulla collina, a sovrastare tutto il resto. Da lassù, tra i faggi e i castagni che fasciavano l’altura, lo sguardo poteva abbracciare quasi completamente lo specchio del lago, da una riva all’altra e la chiesa di San Maurizio stava proprio lì, in posizione dominante. Ma, nonostante questo, a differenza di quella di San Rocco che si ergeva al limite della Via Crucis, dopo il bosco, nella frazione di Montedoro, era una chiesa senza campana. Roso dall’invidia, incurante del fatto che quel sentimento doloroso, figlio della frustrazione, rappresentasse uno dei sette peccati capitali, padre Borlotti decise di infrangere anche il settimo dei dieci comandamenti: non rubare. Se la sua parrocchia non aveva la campana, nemmeno quella del sacerdote “rivale” doveva disporne. Così, accantonato ogni precetto morale e nascosta nel profondo della sua coscienza ogni remora, decise di rivolgersi a due balordi che, per poco prezzo, s’incaricarono di compiere il furto su commissione. Tramite un ladruncolo locale che, ormai redento, nel segreto della confessione, aveva raccontato a padre Borlotti le scorribande che l’avevano visto protagonista con i due, venuto a conoscenza del loro ultimo domicilio, li contattò. Venne così organizzato quell’incontro clandestino al quadrivio che, puntualmente, si svolse in tutta segretezza. In quattro e quattr’otto s’intesero anche se, per un istante, la battuta infelice del più grosso dei due – “certo che rubare la campana ad un’altra chiesa, è proprio uno scherzo da prete” – rischiò di fare andare a monte l’accordo. “La salita parte da qui”, disse a voce bassa Gualtiero Marin. “Basterà seguire il sentiero e, giunti al termine delle stazioni della Via Crucis, troveremo la chiesa”. Più conosciuto come Non son bon, appellativo un po’ malevolo che gli era stato appioppato perché quella era la risposta che dava quando intendeva schivare un lavoro, Marin era un omaccione corpulento. L’esatto contrario di Egisto Malfermi, magro come il manico di un piccone e basso di statura. Malfermi, a causa di una rapina finita male in Alto Adige, aveva scontato sette dei dieci anni di galera inflittigli dalla condanna e, dopo la sentenza, a causa di una battuta del maestro Dragotti, appassionato del Risorgimento, era diventato per tutti Silvio Pellico. Il Dragotti, con una punta d’ironia, sosteneva come il carcere di Bolzano non fosse paragonabile allo Spielberg e la causa della detenzione non potesse certo venir rubricata tra le più nobili (furto con scasso nel negozio di un orologiaio, ndr) “ma in fondo, sempre di galera si trattava” e quelle erano state “le sue prigioni”; quindi quel Silvio Pellico “ gli calzava bene.
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I due, “incaricati” da padre Borlotti, con fare rapido e circospetto, iniziarono a salire contando, una dopo l’altra, le cappelle. Alla quarta, raffigurante Gesù che incontra sua Madre, fecero una piccola sosta. Ripresero, poi, il cammino di buon passo e si arrestarono nuovamente alla settima stazione, davanti al dipinto che raffigurava Gesù mentre cadeva per la seconda volta nella salita al Calvario. Marin, ansimante e con il fiatone grosso, si fermò, ancora una volta, all’undicesima stazione, puntando gli occhi su quel Gesù inchiodato sulla croce che ben rappresentava i patimenti che l’omone stava provando. Silvio Pellico, meno stanco, lo esortò a compiere ancora un piccolo sforzo, rassicurandolo che, da lì a poco, sarebbero sbucati davanti alla chiesa. E così, sbuffando come un mantice, oltrepassata l’ultima cappella che raffigurava il corpo di Gesù deposto nel sepolcro, il massiccio Non son bon raggiunse il sodale sotto le mura del campanile della chiesa di San Rocco. La luna era piena, tondeggiante e gonfia di una luce gialla che illuminava il bosco, allungando le ombre. I due loschi figuri alzarono lo sguardo verso la sommità del campanile. Per Silvio Pellico sarebbe stato un gioco da ragazzi scalare esternamente quella torre, poggiando i piedi in aderenza sulle pietre che, al tempo stesso, sarebbero servite come appigli per le mani. E così fece. Giunto a destinazione, avvolse il batacchio con uno straccio, evitando di far risuonare la campana e – recuperata la cima che vi era legata –   la assicurò alla maniglia della campana. Quest’ultima, sganciata dalla trave, venne così calata lentamente fino a terra dove l’attendeva Marin. Sceso in fretta dal campanile, con l’agilità di un gatto, Silvio Pellico aiutò il complice a portare la refurtiva e, in pochi istanti, sparirono nel folto del bosco. In fondo alla Via Crucis, avevano lasciato la vecchia Ape 50 del Non son bon, e caricarono la campana sul cassone di lamiera. Avviato lo schioppettate motore, si dileguarono nella notte in direzione opposta al lago. La stazione ferroviaria era lontana dal paese. A piedi, disponendo di un buon passo, occorreva un quarto d’ora abbondante per raggiungere il piccolo albergo dove al maresciallo Tancredi Manetti era stata prenotata una stanza dall’economo della Curia, don Francesco Stella. Senza indugiare, seguendo le indicazioni ricevute, Manetti s’incamminò. La pensione, gestita dalla famiglia Tinchelli, si trovava a un centinaio di metri dal pontile d’attracco dei battelli che accompagnavano i visitatori all’isola Grande, nel bel mezzo del lago di Paglione. La signora Giulietta, una donna di mezza età dai lineamenti fini e dallo sguardo dolce, lo accolse calorosamente, mostrandogli subito la sua camera.
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Vista lago, signor Maresciallo”, si premurò di dire, sottintendendo un trattamento di favore. In realtà, essendo in bassa stagione, a parte il Manetti e Arturo Terzilli, poeta e pittore che, da anni, era ospite fisso della pensione “Al buon ristoro”, nessun altro cliente occupava le rimanenti otto stanze. Il maresciallo era stato inviato in quel paese stretto tra lago e colline per indagare su un furto alquanto strano: la campana di una delle due chiese, quella dedicata a San Rocco. Il luogo di culto sorgeva sulla piccola altura che portava lo stesso nome del santo pellegrino che, dal Medioevo, veniva invocato a protezione dai terribili flagelli della peste e delle epidemie. L’edificio, con la torre campanaria sulla cui guglia svettava una croce di ferro battuto, si raggiungeva seguendo la Via Crucis con le sue quattordici stazioni e da lì, in una notte di luna piena di due settimane prima, erano saliti i ladri, scalando il campanile fino alla sommità. Non doveva esser stato un compito così agevole, per i ladri, staccare la campana da 60 kg e, poi, calarla giù con una corda. Ma l’attività criminosa, compiuta nelle ore notturne, era passata inosservata fino a quando, la domenica mattina, Alfredo Bini, il sagrestano, aveva fatto l’amara scoperta, tentando di suonare la campana per richiamare i fedeli alla messa. Il parroco, Don Carmelo Greco, sporse subito denuncia ai carabinieri di Borgo Vecchio che, a loro volta, informarono il loro comando a Valle Scura. Le prime indagini non portarono a nessun risultato, così venne incaricato il Maresciallo capo Manetti, uno degli uomini più esperti di cui l’Arma poteva disporre in quel territorio. Dopo aver ascoltato il parroco e il sagrestano, raccogliendo le loro testimonianze, Manetti iniziò ad interrogarsi su quello strano furto. Chi poteva aver interesse a trafugare una campana? E per farne cosa, poi? Venderla? Forse, ma – ammessa la possibilità di fonderla per recuperare il bronzo – non era un’operazione così facile da eseguire. Ne sarebbe valsa la pena? Un furto su commissione da parte di un collezionista? Ne dubitava: ce n’erano di più belle e più antiche nelle chiese vicine. Decise di fare un sopralluogo. Giunto al culmine del sentiero, lasciatasi alle spalle la Via Crucis, venne colto di sorpresa dal temporale. Salendo nel bosco non s’era accorto di quei nuvoloni neri, gonfi di pioggia, che – addensatisi sui rilievi dei monti della Val Cupa – erano stati sospinti   dal vento fino alle colline che digradavano verso il lago. Iniziò a cadere la pioggia. Prima a goccioloni e poi, via via, sempre più fitta e intensa. Manetti trovò rifugio sotto la tettoia che riparava l’entrata della canonica. Padre Borlotti, nel frattempo, era roso dal rimorso e si era amaramente pentito per aver escogitato quella trovata e di avere chiesto ai due balordi di mettere in atto quel suo piano scriteriato. Cosa fare, ora, della campana trafugata? Quale destino riservarle? Per il momento, l’aveva nascosta nel fienile di Clementina De Nellis, la sua fidatissima perpetua. La donna, ignara e all’oscuro dell’intera vicenda, aveva risposto con sollecitudine all’istanza del parroco, consegnandogli le chiavi della cascina ormai in disuso.
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L’aveva fatto senza chiedersi il perché di quella strana richiesta. In fondo, pensava, “il Don avrà le sue ragioni e se vorrà dirmele me le dirà lui, senza importunarlo con le mie domande”. Il parroco di San Maurizio si arrovellava, consapevole di aver commesso un grave peccato commissionando quel furto a quei due che, in cambio del lavoro e del silenzio, avevano ricevuto due biglietti da 50 mila lire a testa e la doppia assoluzione – almeno dal punto di vista della fede – per il gesto compiuto. La campana non poteva certo essere restituita così, magari abbandonandola in uno dei campi. L’atto che aveva architettato era senz’altro esecrabile ma l’idea del possibile riposizionamento dello strumento musicale nel campanile di San Rocco non gli piaceva affatto. La sua contrarietà era così forte da ottenebrarne la mente. Così, prese una decisione d’impeto, evitando di rimuginarci troppo: gettare la campana nel vecchio pozzo vicino alla cascina abbandonata dei Laricini, dove da più di vent’anni, morto senza eredi il vecchio Augusto, nessuno aveva più messo piede. Non era molto distante dal fienile di Clementina e, attese le ore più buie della notte, quelle che precedono l’alba, Padre Giravolta, mise in pratica il suo progetto. Faticando non poco nel trascinare un vecchio carretto trovato nella casina abbandonata sul quale aveva caricato la campana, fermandosi a prender fiato di tanto in tanto, coprì il breve tragitto quasi fosse il suo, personalissimo, Calvario. Agganciata la campana alla corda, fece scorrere la carrucola finché udì il tonfo nell’acqua sul fondo del grosso pozzo. Nessuno avrebbe mai pensato di cercarla lì e, comunque, se un giorno – per puro caso – la campana fosse stata rinvenuta, non avrebbe potuto essere mossa alcuna accusa nei suoi confronti e la cosa sarebbe finita lì, avvolta in quell’oblio che circonda spesso i misteri che nessuno, in fin dei conti, muore dalla voglia di svelare. Inforcata la bicicletta, che aveva appoggiato alla staccionata del fienile, ritornò verso la canonica, più sollevato. Si era tolto un bel peso dallo stomaco e, seppure il peccato – e che peccato! – rimaneva intatto sulla coscienza, l’essersi liberato della campana era già un passo avanti. Ed ora, la sua parrocchia – pur con il giradischi e senza strumento a batacchio – aveva un seppur lieve, ma evidente vantaggio su quella di San Rocco, dove la cura pastorale era affidata a quella testa dura di Don Carmelo. 
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L’inchiesta del Maresciallo era arrivata ad un punto morto. Probabilmente, la campana era stata rubata per conto di qualche collezionista di arredi sacri. Negli ultimi tempi, questa tipologia di furti su commissione si era diffusa moltissimo e difficilmente le indagini avevano portato a risultati positivi. La maggior parte dei casi erano rimasti irrisolti, senza un colpevole e senza un evidente movente che potesse mettere chi investigava sulla pista giusta. L’unica cosa che balzava all’occhio, a Borgo Vallescura e nelle sue frazioni, era la forte competizione tra i due parroci, ma – dalle testimonianze che il buon Manetti aveva raccolto – non era certo una novità, considerato che la disputa durava da tempo immemore. Così, allargando le braccia con aria sconsolata, il Maresciallo dovette arrendersi, comunicando la fine dell’investigazione all’ormai rassegnato Don Carmelo Greco e, avvertito il comando di Valle Scura, al quale inviò, per fax, un rapporto dettagliato in cui si motivava il nulla di fatto, salutato con deferenza il parroco, prese congedo dalla signora Giulietta che gli augurò di tornare ancora alla pensione “Al buon ristoro”, “magari per riposarsi un po’ e non per queste beghe di paese”.E i parroci? Padre Luison Borlotti, per scontare il suo peccato, alla spasmodica ricerca di un qualcosa che potesse alleggerire la sua coscienza, regalò – con i soldi raccolti con le offerte in chiesa, ai quali aggiunse altro denaro di tasca sua – un giradischi a Don Carmelo, corredando il marchingegno con un bell’ Lp contenente una compilation di rintocchi di campane da far invidia. Il dono fu apprezzato dall’altro parroco, ma tutto questo non mutò di una virgola il clima di accesa competizione tra le parrocchie di San Maurizio e di San Rocco. L’unica variante era che, a “chiamare” i fedeli ora non restavano che i rintocchi di campane fasulle, incisi sui vinili.

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