Sarajevo, le olimpiadi invernali del "magico febbraio" 1984

 

In Bosnia, dice lo scrittore Giacomo Scotti, quando si vuol dire raccontare “si usa la parola divaniti, dalla radice del turco divan, cioè sofà, canapè, ottomana. Per alludere a un raccontare disteso, lento, da fare (e ascoltare) in compagnia, come un rito. Chi racconta bene è tenuto in grande considerazione qui, come una sorta di eroe nazionale”. Sarajevo è una città dove tutti hanno una storia da raccontare, che sia simile a tante o nuova e diversa, poco importa. Ciò che davvero conta è il racconto in sè. Meglio se lo si ascolta seduti davanti ad una tazza di tè verde, magari fumando la Šiša o bevendo rákija, la grappa. L’uomo che racconta, seduto davanti a me nel piccolo locale, ha un’età indefinibile. Può essere un vecchio di settant’anni o averne molti di meno e portare in volto e sulle mani le rughe di una vita intensa, difficile. Il timbro della voce,malgrado sia flebile, quasi inciampasse tra i denti, denota un certa sicurezza e un piglio orgoglioso. Racconta in un italiano fluente del tempo in cui la città era imbandierata a festa e nei locali si bevevano birra e Zilavka bianco della valle della Neretva (considerato dagli esperti il migliore vino della ex Jugoslavia) per salutare il resto del mondo che guardava, sul finire dell’inverno del 1984, alle montagne innevate attorno a Sarajevo. Il Trebević , bello come il sole, l’Igman severo e impettito, la Bjelašnica – immensa, bianca principessa delle nevi – e la Jahorina, con le sue piste da sci. Sui monti e in città, allo Stadio Olimpico Koševo e nel Palaghiaccio Zetra, andavano in scena le gare dei XIV° Giochi Olimpici Invernali. Per ospitare l’evento a cinque cerchi erano stati scelti un paese e una città del tutto nuovi nel panorama degli sport invernali: la Jugoslavia, orfana di Josip Broz Tito, e una delle sue città simbolo, Sarajevo. “Eravamo un paese senza grande storia, sotto il profilo degli sport sulla neve e sul ghiaccio. Nessuna medaglia conquistata ai Giochi invernali, pochi risultati nelle varie discipline. Ma avevamo dalla nostra l’entusiasmo contagioso e un grande senso dell’ospitalità. Un entusiasmo che esplose con l’impresa del nostro slalomista Jure Franko. Fu lui, il portabandiera della Jugoslavia, a rompere il tabù portandoci per la prima volta sul podio con l’argento conquistato nello slalom gigante”. S’illumina, parlando di questa medaglia e della ‘prima volta’ di un figlio del paese degli slavi del sud che saliva sul podio, dell’emozione per la bandiera della Federazione che sale sul pennone e dell’inno nazionale cantato, in piedi e con la mano sul cuore, da tutto lo stadio. Si sente ancora jugoslavo, anche se non c’è più quel paese che veniva descritto come un’entità fatta da “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito“. Franko diventò molto popolare e in città, come racconta questo amico, si diffuse un motto che diceva più o meno così: “Volimo Jureta više od bureka”, cioè “amiamo Jure più del burek”, la torta salata ripiena di carne e cotta sotto le braci ardenti. S’intuisce che il ricordo è ancora vivido, potente. Il narratore dimostra di avere una certa cultura in fatto di sport. “Il programma prevedeva 39 gare, a contendersi le medaglie furono 1.272 atleti divisi in 49 rappresentative”. E per compiacermi aggiunge: “Gli italiani erano 76, 15 dei quali donne”. Lo guardo meravigliato: ha immagazzinato tutto nella sua memoria, come un computer. Parlando prende colore, si anima. “La sfilata delle delegazioni dei Paesi del mondo, con bandiere e cartelli. Che spettacolo! Le telecamere delle televisioni di cento e cento paesi che scrutavano tutto e tutti con i loro occhi magici, riflettendo in ogni angolo del pianeta le immagini della mia città, così bella e intelligente e capace di stupire il mondo!”. L’uomo ci sta raccontando dell’impossibile sogno della pace, della felicità, dell’orgoglio e della nostalgia. Purtroppo, archiviate le Olimpiadi, il futuro per Sarajevo e per la Bosnia portò i segni, negli anni Novanta, delle atrocità e della devastazione delle guerre seguite alla disgregazione della Jugoslavia, dell’assedio e del tiro a segno dei cecchini, fino al lento e faticoso ritorno alla normalità dopo tanta morte e

distruzione. Ma il suo racconto è sospeso nel tempo e si ferma a quei giorni di metà febbraio del 1984 quando per fortuna si parlava solo di sport. Con invidiabile precisione narrativa ci rimanda indietro a quel tempo. “Nello sci alpino, a parte il nostro Jure, furono i fratelli Phil e Steve Mahre ad imporsi con l’oro e l’argento dello slalom. Americani come William Johnson, vincitore della discesa. Iniziava così la scalata delle Alpi da parte degli sciatori a stelle e strisce”. Storce un po’ la bocca. Si vede che, sportività a parte, figli e nipoti dello Zio Sam non gli stanno tanto simpatici. S’infervora nuovamente, viceversa, parlando della coppia di pattinatori inglesi di Nottingham, Jane Torvill e Christopher Dean, che raccolsero un incredibile successo nella danza su ghiaccio contro i rappresentanti dell’allora Unione Sovietica Natalja Bestemianova e Andreij Bukin, allenati dalla leggendaria Tatjana Tarasova. Fu una gara che passò alla storia del pattinaggio e che nessuno riuscirà mai a dimenticare. Era il 14 febbraio, giorno di San Valentino. La coppia dell’URSS presentò nella danza libera, ultima prova della disciplina, la Carmen di Bizet, ma Torvill e Dean trionfarono letteralmente sulle note del Bolero di Ravel, un’interpretazione che mise i brividi agli spettatori. “Un sogno. Qualcosa di irripetibile. Sembravano appartenere ad un altro mondo. Un

Jane Torvill & Christopher Dean perform Ravel’s Bolero during their gold medal routine

programma perfetto il loro, che meritò dodici 6.0, il massimo punteggio raggiungibile allora. Mai visto niente di simile. Li guardavamo e ci scendevano le lacrime per l’emozione”. Ci confida anche a voce bassa il ricordo di Katarina Witt, stella tedesca dell’Est, molto brava nell’aggiudicarsi l’oro del pattinaggio artistico individuale, ma soprattutto indimenticabile per la sua bellezza. “La sua avvenenza lasciava senza fiato ed era molto forte, come tutti i tedeschi. Non a caso, in quell’edizione e per la prima volta, il medagliere lo vinsero gli atleti della Germania Est (9 ori, 9 argenti 74 e 6 bronzi) davanti all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti che pure vinsero la gara di pattinaggio singolo maschile con Scott Hamilton”. Lo metto alla prova. Gli chiedo, a bruciapelo,dell’Italia. Sorride, senza scomporsi e risponde subito: “Siete arrivati decimi, con due medaglie, entrambe d’oro: Paul Hildgartner nello slittino singolo e Paola Magoni nello slalom, dopo una strepitosa seconda manche, appuntandosi sul petto la medaglia d’oro, impresa mai riuscita prima a nessuna sciatrice italiana. Ti dico di più: era il 17 febbraio del 1984. Un venerdì”. Come non detto, l’enciclopedica memoria di quest’uomo è davvero a prova di bomba. È tardi. Non ci siamo quasi accorti che il tempo passava e che si è fatto scuro. Pago io le consumazioni e mi sembra il minimo. Marchi convertibili ben spesi in compagnia di un amico. Dopo i saluti usciamo e veniamo sferzati da un’aria gelida. Comprendo adesso il significato dei bollettini meteo quando, in Italia, annunciano “venti freddi dai Balcani”.

 

Marco Travaglini

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