Riflessione sull’attualità del pensiero di Alexander Langer

di Marco Travaglini

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LENTIUS, più lento; PROFUNDIS, più in profondità; SOAVIUS più dolcemente. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però si ha il fiato più lungo”

(Alex Langer)

 

Spesso accade che non abbiamo tempo. O non ne abbiamo abbastanza. E quando ci capita di averne tanto – o abbastanza – a disposizione,  spesso non si riesce ad “usarlo” bene. Viviamo in una società dove il concetto di tempo è declinato per negazione. Le persone conoscono solo la fretta, l’andar veloci. Viviamo in una società che, sempre più spesso, dimentica la nozione del tempo e la necessità di praticare dei limiti. Oggi c’è sempre più fretta. Anche a tavola. Una volta ci si riuniva, in famiglia o tra amici, attorno alla tavola, al “desco”. Oggi si corre, spesso ognuno per conto proprio. E’ il ritmo del Fast-food, del “mordi-e-fuggi”. Ingurgitare rapidi, quasi senza masticare, orologio alla mano e senso del tempo chiuso in un cassetto. I gusti, i sapori? Non transitano più sulle papille gustative. Scivolano giù, a precipizio, nell’esofago. Ed i succhi gastrici trasformano lo stomaco in una “miniera” dei primi dell’ottocento, dove regna il super lavoro, senza pause. E per fortuna che qualche inversione di passo s’intravvede, grazie a Carlin Petrini e alle sue “invenzioni”, da Slow-food a Terra Madre. L’uomo, da sempre, si è posto il problema della misura del tempo e dello spazio. Una misura legata al bisogno di evitare che il proprio spazio e il proprio tempo siano schiacciati dalla grande macina della fretta, della velocità, della contemporaneità portata all’eccesso e assunta come riferimento di quest’epoca. In una bella canzone, Giovanni Lindo Ferretti, cantante già leader dei CCCP/CSI/PGR , diceva che esistono uomini che adorano gli orologi ma non sanno riconoscere il tempo. Una semplice e grande verità. Un vecchio proverbio ci ricordava come “chi va piano va sano e va lontano”.

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E’ praticamente certo che sia nato in un mondo antico e agricolo, dove il tempo era dettato dal ciclo delle stagioni. Del resto, per i contadini, l’unico mezzo di trasporto era il “cavallo di San Francesco”, cioè l’ andare a piedi; e anche chi poteva disporre di un cavallo vero o di una carrozza andava poco lontano, rispetto a ciò che possiamo fare oggi, e ci metteva un’infinità di tempo. Il lavoro nei campi era pesante. L’orario era “dall’alba al tramonto”; sei giorni alla settimana (se poi davvero dedicavano la domenica al riposo…). Un po’ meno pesante nel freddo dell’inverno, quando anche le piante riposano; sfiancante, duro e soffocante d’estate. Possiamo o vogliamo tornare indietro a quel tempo? Ovviamente,no. Per tante ragioni, molte delle quali così ovvie da non valer la pena di essere esaminate. Ma questo non è un buon motivo per vivere ossessionati dalla fretta. E’ così sovversivo credere nella necessità di fermarsi – almeno per un po’ – e pensare ? Scrivere, esprimere un’opinione e rispondere di essa, è un stato giudicato da molti un po’ sovversivo. Nulla al confronto delle scelte che sarebbero necessarie, degli atti che attendono d’essere compiuti per invertire una marcia dello sviluppo che da troppo tempo s’annuncia rovinosa. Scriveva il professor  Remo Bodei, parlando di lentezza e velocità, che “ …il problema di ciascuno di noi è di governare i ritmi della propria vita, cioè di mantenersi in rapporto con i veloci cambiamenti del mondo esterno, senza perdere la propria vita interiore. Come la famosa massima di Ernesto “Che” Guevara: “Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza”, ossia, bisogna essere veloci senza perdere la lentezza...”.Il problema è di tenere insieme le tre dimensioni del tempo, avere una vita, per così dire, “stereoscopica”, il che vuol dire che il passato ci deve servire, principalmente, come luogo della memoria e come il luogo che costituisce la nostra identità. Noi non possiamo nascere in ogni minuto, o essere sempre come un pulcino che viene fuori dall’uovo. Quindi il passato non può essere semplicemente visto come il luogo del rimpianto. Così come è pur restrittivo il presente che viene consumato nella frenesia, senza che ci si renda conto di quello che accade. D’altro lato noi non dobbiamo pensare al tempo come a una linea retta sulla quale si muove un punto, il presente, che separa, in maniera irreversibile, il passato dal futuro. Noi avanziamo nel tempo, lasciandoci alle spalle il passato e rosicando l’avvenire. Questa è un’immagine comune del tempo, anche comoda, però non necessariamente vera. Se ci pensate bene noi rischiamo di vivere soltanto nel presente. Il passato lo avvertiamo solo come ricordo. Il futuro lo interpretiamo sempre come attesa. Dunque è al presente che bisogna dare questa elasticità, questa espansione. In questo modo possiamo riuscire a dilatare il nostro presente verso il passato, assorbendone i ricordi, e, come dire, prolungandolo verso il futuro, mediante delle attese che ci mobilitano in direzione di uno scopo. C’è una frase di Alex Langer che non solo mi affascina ma rende bene l’idea di cosa sarebbe necessario fare per vivere in modo più armonico il proprio tempo. Il concetto espresso da quest’indimenticabile costruttore di ponti e di speranze, è  più esteso. Lo trascrivo. “..Il motto dei moderni Giochi olimpici è diventato legge suprema e universale di una civiltà illimitata: “citius, altius, fortius”, più veloci, più alti, più forti. Si deve produrre, spostarsi, istruirsi… competere, insomma. La corsa al più trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta e enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile e incontenibile… Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare in “lentius, profundius, suavius”, più lento, più profondo, più dolce, e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso…Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare i ritmi di crescita e di sfruttamento, abbassare i tassi d’inquinamento, di produzione, di consumo, attenuare la nostra pressione verso la biosfera, attenuare ogni forma di violenza. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo“.

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Non trovo nulla di arcaico, di “passatista”, in questo pensiero di Alex Langer. C’è, viceversa, il cuore dell’idea – molto moderna e vitale – del senso del limite che va praticato nonostante sia difficile e, spesso, addirittura impronunciabile. C’è anche un filone di pensiero più radicale che non va ignorato. Serge Latouche,nel suo“Come sopravvivere allo sviluppo” esprime un forte richiamo alla “lentezza” e al senso del limite nell’idea di una società della decrescita conviviale, serena e sostenibile. Latouche esprime un’idea “ribelle”:”Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo significa fare della sovversione cognitiva, e la sovversione cognitiva è la premessa e la condizione di qualsiasi cambiamento politico, sociale e culturale. Il momento sembra favorevole per far uscire queste analisi dalla semiclandestinità in cui sono state relegate finora“. Esprimeva fiducia “ a tutte le iniziative che chiamo di dissidenza e che spingono a sperimentare modi di vita diversi, alternativi. Penso alla Banca etica, al commercio solidale, alla crescita del Terzo settore, alla protesta ecologica. Credo molto alla possibilità che da queste iniziative diffuse, dal “basso”, possano scaturire un modo di vivere diverso, un’altra civiltà». Non saprei se ciò che si teorizza trova poi noi stessi disponibili ad una interpretazione “pratica” e concreta,  alla modifica di stili di vita, alla ricerca di una nuova “sobrietà”. Mi viene alla mente quando Enrico Berlinguer propose una critica al modello di sviluppo, parlando dell’austerità. Venne deriso, soprattutto all’estrema sinistra (lo slogan era “Berlinguer cucù, i sacrifici falli tu”).  Eppure esprimeva una politica che guardava più in là, mossa da “pensieri lunghi”. Forse l’austerità di Berlinguer non era una parola d’ordine in grado di scaldare i cuori ma era un tentativo d’approccio che meritava rispetto. E maggior fortuna. Sono passati quarant’anni. Vediamo cosa disse nei due discorsi al teatro Eliseo di Roma (1977) ed al “Lirico” di Milano (1979). (…) Una trasformazione può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi, comporta per l’Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.  Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo – ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio – quello di Instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova. Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale. Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere – dobbiamo ammettere, anzi – che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese. (…) L’austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. In sintesi, questi dati sono: innanzi tutto, il moto e l’avanzata dei popoli e paesi del Terzo mondo, che rifiutano e via, via eliminano quelle condizioni di sudditanza e d’inferiorità, cui sono stati costretti, che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo l’acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra questi stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l’Italia; infine, la manifesta e ogni giorno più evidente insostenibilità economica e insopportabilità sociale, in questo mutato quadro mondiale, delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti-venticinque anni. Tuttavia, ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l’Italia si trova oramai – ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno – davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell’imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un ‘iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell’uomo sulla storia e sulla natura. Ecco perché diciamo che l’austerità è, si, una necessità, ma può essere anche un’occasione per rinnovare, per trasformare l’Italia: un’occasione, certo, come ha detto qui un compagno operaio, tutta da conquistare, ma quindi da non lasciarci sfuggire. L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (…).

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Le tumultuose trasformazioni degli anni ’70 e ’80, con l’esplodere dei consumi individuali, l’affermarsi neoliberista dell’edonismo “reaganiano” e la ricerca di nuove forme di identità, misero alla frusta i limiti teorici della “austerità” berlingueriana. Poi, con gli anni a venire, è capitato di  sentir citare quel richiamo con un sospiro nostalgico. Dove si mescola la nostalgia verso Enrico Berlinguer a quella per il messaggio in favore di uno stile di vita più modesto, meno spendaccione e di una vita più ardua, fatta anche di sacrificio, di rinuncia, persino di fatica. Quell’ “intuizione dell’austerità”, la si evoca con sottolineature morali, ma anche come riferimento ad un diverso tenore di vita, ricco di implicazioni economiche e persino ecologiche. Un giudizio, a mio modo di vedere, abbastanza equilibrato, venne proprio espresso – nei primi anni ’90 – da Alex Langer che scriveva : “..Se Berlinguer, a suo tempo, non è riuscito a sfondare con il suo discorso sull’austerità, ciò è dovuto ad una fondamentale ambiguità: era (e resta) difficile capire se l’allora segretario del Pci, pur così ricco di connotazioni etiche, intendesse sostanzialmente la stessa cosa che a quei tempi una larga parte del movimento sindacale proclamava, o se si riferisse ad una diversa accezione di austerità. Nel primo caso era un “tirare la cinghia oggi per rilanciare la crescita domani”, una politica dei due tempi che non metteva veramente in discussione l’obiettivo del “rilancio dell’economia”, e che quindi esigeva uno sforzo di accumulazione per ripartire da una base più solida: meno consumi e più investimenti, meno soddisfazioni immediate e più risparmi, meno cicale e più formiche. Difficilmente entusiasmante, allora come oggi. Una diversa e più profonda accezione di “austerità”, che probabilmente era presente in Berlinguer, ma non realmente esplicitata a quel tempo, avrebbe significato qualcosa di non così facilmente riducibile alle esigenze politico-economiche dominanti allora e oggi. Ci sono alcune verità assai semplici da considerare: nel mondo industrializzato si produce, si consuma e si inquina troppo, si spreca troppa energia non rinnovabile, si lasciano troppi rifiuti non riassorbili senza ferite dalla natura, ci si sposta, si costruisce e si distrugge troppo. Naturalmente sappiamo bene che la distruzione sociale di quei danni è inversamente proporzionale alla ricchezza: i ceti opulenti e benestanti esagerano più dei poveri, i quali hanno poco da sprecare perché mancano dei necessari presupposti economici. Ma essi non sono meno influenzati dalla cultura dominante, per cui aspirano – assai sovente a diventare al più presto esattamente come i più ricchi, e trovano spesso insopportabile l’idea che la felicità non esiga l’automobile, il video-recorder e le vacanze a Madagascar. Accettare oggi la positiva necessità di una contrazione di quel “troppo” e di una ragionevole e graduale de-crescita, e rilanciare, di fronte alla gravissima crisi, un’idea positiva di austerità come stile di vita compatibile con un benessere durevole e sostenibile, sarà possibile solo a patto che essa venga vissuta non come diminuzione, bensì come arricchimento di vitalità e di autodeterminazione”.

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Era evidente che ciò, secondo Langer,  dipendeva da tutto un intreccio di scelte personali e collettive, di condizioni culturali e sociali, di sinergie e intese. Ma qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria, il privilegio di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comperare o vendere, il privilegio di usare con saggezza e parsimonia l’eredità comune a tutti, senza recinti e privatizzazioni indebite. Prende corpo l’idea della “lentezza” come approccio all’austerità di una vita più frugale, meno riempita da merci usa-e-getta, più ricca di doni, di servizi mutui e reciproci, di condivisioni e co-usi a titolo gratuito, di recuperi e riciclaggi, di soddisfazioni senza prezzo. E, sempre Alex Langer, chiudeva così quel suo pensiero: “Ristabilire e rendere desiderabile questo genere di austerità come possibile stile di vita, liberamente scelto e coltivato come ricchezza, comporterà una notevole rivoluzione culturale ed una cospicua riscoperta della dimensione comunitaria. Perché con meno beni e meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull’aiuto gratuito degli altri, sull’uso in comune di tante opportunità, sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce”. Un’occasione,una possibilità. Da sperimentare come miglioramento della qualità della vita, che ci faccia dipendere meno dai soldi, da beni e servizi acquistabili sul mercato, esigendo che ognuno ridiventi più interdipendente: sostenuto dagli altri, dalla qualità delle relazioni sociali e interpersonali, da conoscenze e abilità, dall’arte di adattarsi e arrangiarsi, da capacità non ottenibili con alcuna carta di credito, nè  disponibili “chiavi in mano”, pronte ad essere passivamente consumate. Il nostro tempo, dunque, non è “lento”.  E’ un tempo incerto e disorientato. Non a caso, intorno a noi e tra di noi,  c’è domanda di senso e di valori.

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Gli italiani hanno paura del futuro”, ricordava tempo fa il Censis. A questo paese stanco e sfiduciato, come si può dare, una speranza? Credo che una indicazione sia proprio nell’idea di uno sviluppo ad alta qualità ambientale e sociale. Una visione dello sviluppo che non guarda solo all’incremento della ricchezza nazionale e a una sua più equa distribuzione, ma anche alla qualità della vita, alla libertà delle persone, al cambiamento degli stili di vita e delle relazioni con la natura. La possibilità di vivere meglio, ricordandosi che ben-essere non è sinonimo di ben-avere. E’ una riflessione che da tempo mi avvince. L’ho sperimentata, in passato, occupandomi di turismo montano, dove lo sviluppo troppo spinto tende a mangiare la sua prima risorsa economica, non rinnovabile, essenziale:l’ambiente. Con il rischio di “suicidare” un intero sistema di reddito e di produzione economica, annegando le differenze e le particolarità, “livellando” la montagna alla pianura, le comunità alpine alle città.  Ma non sono in grado di avventurarmi sul terreno sdrucciolevole delle teorie che, come sempre, si prestano a più letture interpretative. Ne facevo cenno prima: lo” sviluppismo” senza limiti crea situazioni di forte criticità, ma siamo disponibili a sperimentare una serie di rinunce, di attenuazioni – anche consistenti – del nostro modo di vivere, produrre e consumare? Non lo so. Avverto, come molti, la necessità di porre dei limiti, di esercitare una più impegnativa morale pubblica su temi così decisivi per il presente e per il futuro. Ho anche molti dubbi e scarse certezze. Una di queste è però legata all’idea di una nuova sobrietà che non ci farebbe nessun male. La interpreto come un bisogno generale,una buona regola. Che implica un legame stretto e molto “intimo” con la lentezza, con l’idea di uno sviluppo più “slow”. Tema complicato e delicato, molto sdrucciolevole, quello della sobrietà.

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In uno dei suoi scritti più belli e più noti Alex Langer si chiedeva: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? Come suscitare motivazioni, nella maggioranza delle persone, che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta, verso una concezione del benessere sensibilmente diversa? “Né singoli provvedimenti, né un miglior ministero dell’ambiente – si rispondeva Langer – per quanto necessari e sacrosanti potranno davvero produrre la correzione di rotta, ma solo una rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società si consideri desiderabile.” Sobrietà non è uno stile di vita monacale. Non è una visione pauperistica. Non è tornare indietro. E’andare avanti, è vivere meglio. E’ ridurre lo spreco, spreco di risorse naturali e di energia prima di tutto. E’ consumo intelligente, per non consumare il pianeta e per non consumare tutta la nostra vita nella spirale nevrotica del consumismo. E’ un’idea più piena e umanamente ricca della vita. Una visione della vita più desiderabile, in definitiva.  Una correzione di rotta, auspicava Langer. La stessa espressione – correzione di rotta – era stata utilizzata da Joseph Conrad, nell’estate del 1912, in un articolo dal titolo “Alcune riflessioni sul naufragio del Titanic”. “A quanto pare – scriveva Conrad – esiste un punto in cui lo sviluppo smette di essere vero progresso. Un punto in cui il progresso, per essere un vero avanzamento, deve variare leggermente la sua linea di direzione..”. I problemi ambientali ci dicono come il modello di sviluppo finora sperimentato abbia smesso, per molti aspetti, di essere vero progresso. E il cambiamento di rotta vero, dall’illusione di una crescita illimitata alla rotta nuova che porta verso uno sviluppo sostenibile, ancora non c’è stato. Eppure non servono gli esperti per capire che sarà questa, probabilmente, la sfida più grande che abbiamo davanti a noi. Una rotta nuova, nell’oceano inesplorato della sostenibilità. Siamo disponibili, , nel nostro piccolo, ad affrontarla, questa navigazione incerta, affascinante e necessaria? Questo è il punto. Se penso alla Val di Susa, io non mi sono mai collocato tra i “no Tav”. Penso che alcune opere siano necessarie. Per alcuni versi indispensabili. Ma non ho mai rinunciato a discutere sul “come” farla. Ritengo indispensabile il coinvolgimento delle popolazioni e degli amministratori locali, in ogni scelta. Mi preme che venga seguita la strada del minor impatto e della maggior garanzia possibile per l’ambiente e le persone. Sono dell’idea che occorra condividere un percorso con le popolazioni locali sulla gestione dei cantieri, sugli “impatti”, sulle prospettive sociali ed economiche di opere importanti. Sono, in definitiva, dell’idea che la “lentezza” non si ponga in alternativa alla modernità. E’ una sua variante , più ricca di umanità e più rispettosa del bene comune.  Ma qui mi fermo. L’intenzione era di mettere, nero su bianco, alcune impressioni, scontando molte imprecisioni e tutta la necessaria confusione. Ognuno di noi, in qualche modo, ha una sua “bussola”, un punto cardinale al quale s’affida per non perdere il senso di marcia della propria vita. Il mio ha a che fare – seriamente e serenamente –  con le riflessioni e i desideri di Alex Langer.

 

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