Perché è difficile denunciare un abuso

di  Davide Berardi *

 

Per quale ragione non si denuncia una ingiustizia? Come mai non si racconta un abuso? Perché la prima cosa che fa la vittima spesso non è raccontare? Nel momento in cui esce una notizia di una violenza di qualsiasi tipo sia, bullismo, abuso sessuale, stalking, mobbing, cyber bullismo, la prima cosa non è denunciare, non è urlare al mondo la prepotenza subita, perché non ci si ribella alla violazione immediatamente? La maggior parte delle risposte a queste domande è vergogna, ma cosa è la vergogna? Quel senso di inadeguatezza che porta a sentire un essere umano non degno, non consono, non idoneo a “non” ricevere un abuso. Un turbamento interiore profondo e scomodo da elaborare. Addirittura la vergogna fa sì che perdutamente si inizia a sentire anche di meritarlo quell’abuso, “forse è colpa mia”. La vergogna del raccontare, di essere “sporchi di violenza” poiché le persone allontanano, tengono distante da loro le cose “sporche”, le vergogne. L’essere umano gradisce il pulito, il profumato. Oggi ci sono perfino contraccettivi di vari colori e odori. Prodotti per il corpo di ogni genere. Tendiamo ad ovattare, a confezionare, quasi incravattare il nostro istinto primordiale, i nostri umori più incontrollabili, i nostri “cattivi odori mentali”, prima che fisici. Ebbene sì, mentali, dato che un comportamento, di qualsiasi gesto si parli, prende vita, inizialmente, da un atteggiamento mentale e dunque da un pensiero, giusto o sbagliato che sia.

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E raccontare un “assoggettamento” subito è giusto? Libera? Fa sentire meglio? Beh’, la violenza resta, ma fa sentire senza dubbio meno soli. Perché ciò che uccide, dopo il gesto subito, è la solitudine di portarlo con sé come un segreto, come un cesto di panni sporchi da nascondere per paura del giudizio dell’altro, per terrore che l’altro possa pensare che sia stato un gesto istigato, meritato e che dunque ne potremmo essere responsabili insieme al nostro aguzzino di turno. Un gesto di bullismo che fa perdere un occhio, un comportamento di stalking che fa smarrire il sonno, un’azione di mobbing che lancia un giaccone di uno sventurato collega da una finestra di un ufficio, un “luogo” di nonnismo dettato da gerarchie emotive egoiste e personali all’interno del quale trova sfoga la propria frustrazione individuale su chi è più debole o più indifeso o tremendamente più sfortunato di noi. Cosa si cela dietro ciò? Vigliacchi? Prepotenti seriali? Persone psicotiche o psicologicamente individui non in grado di elaborare i propri vissuti sani o feroci che siano e che, dunque, evacuano la loro esperienza, “vomitandola” sulla vita di un altro essere umano. Non vigliacchi o per lo meno non solo vigliacchi, ma individui disturbati dalla loro di vita stessa, deboli e non giustificabili. Persone che, probabilmente, a loro volta, non sono state aiutate quando dovevano esserlo e che continuano a non farsi aiutare. Individui che non accettano un dato di realtà, loro, personale, causato dalla vita. Perché piaccia o no viviamo tutti sotto la scia di un destino anarchico e, se non si riesce a tollerare questo dato di realtà, allora bisogna imparare, umanamente, non a sfogarsi su un l’altro ma a chiedere aiuto. Chiedere aiuto significa condividere la propria sofferenza con un’altra persona, significa puntare sull’empatia che dovremmo avere verso l’altro, poiché la condivisione alleggerisce dei pesi propri e altrui e, non soltanto condividendo in rete, riempiendo le bacheche dei nostri social network. La condivisione accogliente, calda, scioglie la sofferenza e permette a quel blocco sul cuore di ripartire ma, se ciò non avviene, allora l’evacuazione psicologica e fisica avverrà, spesso, nel più orribile e più facile dei modi, “violentando” il più debole, sporcandolo nell’anima. Bulli, violenti, prepotenti, stalker, mobber, non rappresentano altro che forme in cui può sfociare la fragilità umana non accolta.

 

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La violenza chiama violenza e chiama vendetta, ma le ferite non si cancellano, anzi, spesso vengono soffocate dai nostri pregiudizi contro chi ha atteggiamenti diversi dai nostri. Ciò porta la vittima a nascondere l’abuso subito, ma non si può nascondere una ferita così profonda come la violazione dell’animo umano. Allora leggiamo di suicidi, di “contro violenze”, di gesti apparentemente gratuiti, che ledono la figura dell’altro, di sfruttamento da parte di familiari verso componenti della loro stessa famiglia, sangue contro sangue, beh è importante sapere che il rapporto di parentela non determina l’affettività, ma sentenziare su una vittima di abuso, di qualunque natura sia, indubbiamente non migliora le cose, anzi dona ancora più forza e legittimità a chi compie gesti inumani solo perché non piace la spazzatura dentro casa, sul marciapiede, nel palazzo accanto. Fa paura sapere e prendere consapevolezza che l’uomo può arrivare a compiere infime atrocità, poiché siamo tutti esseri umani. Spaventa essere accumunati biologicamente ad un altro essere cattivo al punto tale da mostrarsi feroce e folle, “puzza” tutto ciò, poiché ricorda di cosa possiamo essere in grado di fare. E allora ne parliamo solo quando capita? No! Parlate di quello che vi succede, raccontate quello che vi accade, il pregiudizio o il timore di essere giudicati non sono atteggiamenti sani, non lasciate che vinca il qualunquismo o la pena per certe cose che accadono. Non siamo tutti uguali, non la pensiamo tutti allo stesso modo. Non omologate un vostro pensiero di sensibilità. Nessuno merita di subire prepotenze e chi ne rimane vittima deve sapere che non c’è vergogna nell’essere stati soggetti in un momento di offesa. Togliamo la maschera ai comportamenti scorretti, alla luce sarà più facile affrontarli e faranno meno paura. Facciamo prendere aria alla stanza della nostra intimità, il sapore e l’odore delle emozioni è il nostro, non di qualcun altro, la vergogna blocca, la condivisione libera e di qualsiasi cosa si tratti, farlo sotto la luce del sole renderà tutto meno buio di quello che è. Nessun sopruso deve impedire a qualcuno di smettere di volersi bene. Vogliatevi bene, è un obbligo emotivo.

 

*Dott. Davide Berardi, Psicologo – Psicoterapeuta

Psicologo, Psicoterapeuta ad Indirizzo Relazionale Sistemico, Docente Corsi di Accompagnamento al parto, Psicologo della riabilitazione e del sostegno nella terapia individuale e familiare, Terapeuta del coraggio emotivo.

davide_berardi_78@yahoo.it      

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