Opere prime al TFF. Convince “Atlas”del tedesco David Nawrath

Valerio Mastandrea, dal 1994 attore di cinema, con quattro David di Donatello vinti all’attivo, quattro anni dopo gran successo personale con il suo Rugantino al Sistina, Claudio Caligari, Magni, Archibugi, Scola, De Maria e Guido Chiesa, Paolo Genovese, Moretti, il Virzì della Prima cosa bella, il Bellocchio tratto dal romanzo di Gramellini, Ozpetek e lo scomparso Mazzacurati alcuni dei registi con cui ha collaborato, il viso icona di un certo cinema d’autore, impegnatissimo, ha deciso di passare dietro la macchina da presa

Lo fa con Ride, la narrazione di come una moglie (Chiara Martegiani, compagna dell’attore, forse un po’ lontana dal “vivere” un non-ruolo che avrebbe necessità di maggiori sfumature) viva il lutto che segue alla morte del marito, una delle tante morti bianche nelle fabbriche italiane, di come, di riflesso, la viva il figlio rimasto orfano (“perché non piangi? per colpa tua non riesco a piangere nemmeno io”, le dice). Le lacrime sul viso della donna non arrivano, bisogna prepararsi al funerale (“ci sarà la televisione” le chiede ancora il figlio, mentre prova ad un microfono giocattolo con l’amico dei giochi le risposte che si immagina e le risposte che darà), accogliere in qualche modo parenti e amici che piombano in casa ognuno ad inscenare il proprio teatrino, a far vivere il proprio ruolo per una manciata di minuti, truccarsi o non truccarsi?, accettare le premure della vicina di casa (Milena Vukotic), mostrare il dolore secondo i canoni universalmente riconosciuti: ma le lacrime non arrivano. Il tema, giocato tra affetti irrisolti e attimi di un’ironia ai più impraticabile, gira un po’ su stesso salvo riprendere nettamente quota – del resto, in una poco inspiegabile inversione di rotta, ad affrontare un altro grumo del racconto per mettere più in ombra quello che dovrebbe essere l’ossatura principale – con l’arrivo di un sempre eccellente Renato Carpentieri, il padre del morto, che vive angosciato e triste sul litorale laziale di Nettuno, stancamente, che si vede arrivare in casa l’altro figlio (un incisivo Stefano Dionisi), la pecora nera della famiglia, momenti sinceri di ribellione, come quelli del ragazzino, in sella alla sua bicicletta a staccare dai muri del paese gli annunci di quella morte. Le scene un po’ ad effetto sono dietro l’angolo, il melò e il sogno si fanno strada e a tratti la regia s’abbandona a effetti facili: o vuol dire troppo, l’errore in cui cadono tante delle opere prime che scorrono in questi giorni sugli schermi del TFF.

O finiscono col dire poco, con la scusa malamente rabberciata che ci stanno descrivendo la vita e come tutti sappiamo la vita è fatta di tutto e di niente. Difficile raccontare per immagini la quotidianità e dialoghi che la costruiscano a poco a poco. Ne sa qualcosa Temporada del brasiliano André Novais Oliveira, alla sua opera prima, fotografando nel titolo un tempo da attraversare e da superare tra cieli limpidi e acquazzoni, come le stagioni. Ne sa qualcosa Juliana che ha appena lasciato la provincia e si è trasferita nel grande centro di Contagem, nell’attesa che il marito la raggiunga. Nell’assenza sempre più inspiegabile dell’uomo, trova un lavoro assai poco retribuito (interessarsi per conto di un’agenzia comunale a tenere sotto controllo l’esplosione della dengue, passando di cortile in cortile, a far la conta della sporcizia, a scoperchiare piccole piscine infette), stringe amicizia con i colleghi, telefona e mangia e ride, si lascia fare un nuovo taglio di capelli, accetta tutta la passione di un compagno di lavoro e ci va a letto, scambia chiacchiere con le amiche, spettegola, si diverte, si alza e si corica, arriva tardi al lavoro. Un giorno dopo l’altro, con le azioni di sempre. Oliveira racconta le periferie, del suo come di qualsiasi altro paese, conosce quelle strade, perché ci è nato, certo quelle persone, perché le ha incontrate, si affida alle invenzioni e all’estrosità di un’attrice che si chiama Grace Passô che è definita “da applausi” ma che credo svolga la sua prova con una discreta professionalità e nient’altro, accumula azioni dietro azioni e parole dietro parole: senza mai arrivare ad una scintilla che inorgoglisca la vicenda, che offra a quel quotidiano fatiscente un riscatto, una zona di vita vera, che dia alla protagonista davvero una forza di costruzione e non rischi di farla apparire soltanto come un piccolo personaggio.

Decisamente più convincente Atlas, opera prima del tedesco David Nawrath, che si porta già appresso con serrata bravura le atmosfere del noir, le psicologie contorte che nascondono i personali passati e i loro problemi, una scrittura capace di descrivere con intensità lo svolgersi della vicenda, una eccellente direzione degli attori. In una città della Germania, dove tutto è ordine, strade alberate e case di una discreta eleganza, Walter lavora per una compagnia di recupero crediti che fa affari con la malavita, lui a bussare alle porte, a liberare con l’aiuto dei colleghi i tanti alloggi e a eseguire quegli sfratti che sono affari decisamente sporchi, speculazioni. Un giorno nel gruppo di operai entra qualcuno dai modi piuttosto spicci e Walter si troverà a cercare di proteggere un piccolo gruppo familiare che, ultimo tra tutti, tenta di asserragliarsi e difendere il proprio appartamento, in una casa ormai decretata inagibile. Nawrath non è soltanto capace di descrivere con le asprezze necessarie il mondo buio della città, la tensione degli appostamenti, la violenza che esplode; costruisce con altrettanta ineccepibile bravura quegli angoli di sentimento, insperati, che si possono scoprire, gli attimi di coraggio, le redenzioni inattese, i sorrisi e i legami ritrovati, dando alla vicenda una normalità narrativa che altri forse avrebbero capovolto con azzardi di cui proprio non si sarebbe sentito il bisogno. Un’opera che si apprezza appieno e che si pone tra i titoli migliori visti nel concorso di quest’anno. Ottimo il disegno che del protagonista fa Rainer Bock (già impegnato con Haneke e Tarantino e Spielberg), eccellente giustiziere in cerca di grazia.

 

Elio Rabbione

 

Nelle foto: Chiara Martegiani, protagonista di “Ride” opera prima di Valerio Mastandrea; ancora una scena del film, con Renato Carpentieri e Stefano Dionisi; “Temporada” con la protagonista Grace Passô; una scena del tedesco “Atlas”, interpretato da Rainer Bock.

 

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE
Articolo Precedente

 ARTESIO (TORINO IN COMUNE – LA SINISTRA): IL FUTURO DI FCA

Articolo Successivo

Gruppo Abele e Sant’Anna per le donne sieropositive

Recenti:

IL METEO E' OFFERTO DA

Auto Crocetta