Nove novembre novantatre

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Guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace. Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate

Fu l’architetto Hayrrudin a costruirlo nel 1566, per ordine del sultano Solimano il Magnifico. Dalla parola slava che indica il ponte, «most», prese nome la città sorta sulle sue opposte sponde. Quel ponte a schiena d’asino, simbolo del legame fra Oriente e Occidente, fu visto, però dai nazionalisti croati – come ha scritto, con grande acume, Giacomo Scotti -“come negazione della loro politica d’odio verso i musulmani che abitavano ed abitano sul lato del fiume opposto a quello croato, nei densi quartieri di case abbarbicate sulle pendici che scendono dolcemente verso la sponda orientale”. In quel novembre 1993 guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace.

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Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate. Tante, tantissime  granate, provenienti dall’altra parte della città, quella sotto controllo dell’Hvo (l’esercito dei croato-bosniaci). L’artiglieria croata portò a compimento il suo”capolavoro” martedì 9 novembre, abbattendo il ponte. In coincidenza con il quarto anniversario della caduta del Muro di Berlino. Esattamente cinquantacinque anni dopo la “notte dei cristalli”, il pogrom antisemita dei nazisti che distrussero, bruciarono e saccheggiarono sinagoghe e negozi ebraici in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Casualità? Difficile dirlo. Un fatto è certo. Se, per un verso,  la caduta del Muro chiuse una pagina nera della storia europea, abbattendo simbolicamente il confine della guerra fredda e avviando il processo di riunificazione della Germania, l’abbattimento del ponte di Mostar equivalse all’esatto contrario. La distruzione del Ponte Vecchio non fu un gesto casuale, né l’azione scellerata di un manipolo di soldati scriteriati e senza ordini. Al contrario, fu il risultato di una strategia pianificata dai politici croati e dai capi croato-bosniaci per rimuovere la popolazione musulmana, ghettizzandola sulla sponda orientale della Neretva. I sei croati ritenuti responsabili vennero imputati dal Tribunale dell’Aia per aver commesso una “impresa criminale congiunta” e condannati dai dieci ai venticinque anni di prigione. Tra di loro il generale croato Slobodan Praljak, al quale di anni ne furono affibbiati venti, in quanto riconosciuto come principale responsabile della distruzione dello Stari Most. Lo stesso che dichiarò che “quelle pietre” (il ponte) “non avevano nessun valore”. Divisione, cesura, distruzione di un simbolo dell’identità culturale: altro che anonime pietre. Alla fine della guerra, nel 1995, la comunità internazionale pose tra gli obiettivi principali della ricostruzione della Bosnia-Erzegovina devastata, la riedificazione dello «Stari Most». La seconda vita di quello che molti definivano un «monumento alla pace» cominciò qualche anno dopo, con materiali e tecniche originali, recuperando dal fiume le poche pietre ancora utilizzabili ed estraendone altre dalle cave da cui proveniva la pietra originaria che andava lavorata dagli scalpellini.

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Il costo della ricostruzione dell’intero complesso, dalle Halèbija e Tara – le imponenti, seicentesche torri laterali – agli edifici attigui, ammontava a circa 18 milioni d’euro. E l’Italia fu la nazione più impegnata, per l’entità della donazione, con oltre tre milioni. Una parte tutt’altro che simbolica dell’impegno straordinario per aiutare la Bosnia-Erzegovina a rimettersi in piedi. Una cosa importante che s’accompagnò a quella ben più straordinaria della folla di pacifisti, donne e uomini d’ogni età e ceto sociale,  che durante la guerra, affrontando gravi pericoli e mettendo a repentaglio la propria vita, portarono ai bosniaci d’ogni etnia la solidarietà, gli aiuti concreti in cibo, medicinali e  vestiario oltre che il conforto di un mondo che non li aveva dimenticati relegandoli alla cronaca di qualche telegiornale della sera. Anche tra questi, in molti, furono gli italiani. Purtroppo, mentre il ponte rinasceva offrendo di sé un’immagine di speranza, altri episodi contribuirono a tenere aperte le ferite. Come il significato simbolico che i nazionalisti hanno voluto dare al nuovo, altissimo campanile della piccola chiesa francescana. Il più alto che esista nell’ex Jugoslavia, ovviamente molto più alto del campanile originario, anch’esso lesionato dalle cannonate nel 1992. S’innalza come un pinnacolo a 107 metri d’altezza, svettando a dominio della città, ben oltre il campanile della più grande chiesa cattolica del Balcani, vale a dire la cattedrale di Zagabria. Un evidente gesto di sfida che si accompagna all’enorme croce di marmo bianco, alta trentatré metri, che si staglia nel cielo ancor più del campanile, perché issata sul monte Hum, che domina la Mostar occidentale, croato-cattolica. Una scelta deliberata dei croati di Mostar per sfida e dispetto ai musulmani. Simboli, grandezze e ombre che s’intendono proiettate sullo Stari Most che invece appartiene a tutti i mostarini, collegando le due sponde del fiume. Ma, nonostante tutto, il ponte resterà il vero ed unico simbolo della città nel suo insieme.

Marco Travaglini

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