Nord-Ovest. La crisi non è solo piemontese

In Liguria 6.000 imprese in meno dal 2008 a oggi

 

 Nei più recenti convegni si sprecano i dati nel comparto degli analisti ormai presenti in ogni categoria sindacale, da quella degli industriali a quella degli artigiani, senza tralasciare naturalmente quelle dei commercianti e dei dipendenti. Il problema vero ritengo stia nel metodo attraverso il quale questi dati vengono raccolti e interpretati, nella logica che nessuna ricerca può davvero esprimere una verità anche fotografica se non in funzione di un modello di interpretazione. L’analista, infatti, non può e, soprattutto, non deve raccogliere dei dati senza interrogarsi sulla modalità attraverso la quale sta facendo la conta; lo scopo della ricerca deve essere predominante rispetto al numero perché, diversamente, si può dire tutto e il contrario di tutto. Ritengo, quindi, che dichiarare pubblicamente che in Liguria a partire dal 2008 a oggi vi sia stato un decremento di 6.000 imprese, a oggi non dia un vero valore aggiunto alla riflessione perché, tralasciando il concetto di impresa troppe volte sovrapposto a quello di partita IVA, che non necessariamente riflette un vero tentativo di attività, quanto semmai di precariato subordinato nella esternalizzazione di una mansione, non rispecchia la problematica o, meglio, la dinamica attraverso la quale si è giunti a quello che può superficialmente essere definito quale impoverimento complessivo del territorio.

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Ma soprattutto di quali aziende si parla? Raccogliere il cartone per la strada vuol dire essere imprenditore? Essere un magrebino imbianchino con partita IVA significa entrare, o meno, nel numero delle imprese da conteggiare? Una vera analisi per essere pregna di significato deve spiegare quale è il riferimento dello studio ma, soprattutto, lo scopo che deve essere costruito nei termini nei quali suggerisca una riflessione in modo da portare la classe politica che, per definizione, può adoperare quegli strumenti della “mano pubblica”, a rispondere coerentemente alla propria ragione d’esistere: la predisposizione di un contesto favorevole all’attività del privato e del libero scambio. Nessuna economia può svilupparsi ma, soprattutto, resistere nel tempo sorretta dal clientelismo pubblico, al contrario un mercato sano e forte necessità unicamente di quella minima, ma fondamentale, sensibilità dell’amministratore statale, che sappia cogliere l’imprescindibile e mai scontata presenza dell’imprenditore, cioè di colui che realmente e, soprattutto, lealmente sacrifica quel tanto o quel poco che possiede per avviare un progetto di investimento nella logica di medio periodo, attraverso la propria applicazione nel lavoro inteso come fatica e impegno quotidiano, nella confidenziale speranza di un miglioramento duraturo delle proprie condizioni di vita, per poter quindi esprimere e vedere realizzati socialmente i propri talenti.

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Ebbene, dal marzo 2008 ho avviato la mia attività imprenditoriale: non ho mai visto nessun soggetto istituzionale e politico di ogni schieramento dirmi, a oggi: “ragazzo hai del fegato, questo è il mio biglietto da visita, farò il possibile per aiutarti”. Non credo che il mio sia un caso isolato e inevitabilmente ognuno tragga le proprie conclusioni che anzi anticipo ad alta voce: “Ma noi giovani intraprendenti siamo ben visti e spronati all’investimento in un progetto in proprio?” Siamo circondati da troppe mezze figure, gelose della propria modesta poltroncina, magari raggiunta a sessant’anni, contornati volutamente da quarantenni senza preparazione, disposti a qualunque captatio benevolentiae in cambio di un piatto di minestra. Molti non sanno che, tra i molti laureati che emigrano all’estero, magari in qualche banca d’affari, (certamente non a servire gli spaghetti al pomodoro a Berlino) ci sono i figli di noti imprenditori locali con a libro paga anche una cinquantina di dipendenti e un fatturato di alcune decine di milioni di Euro, poiché sono i genitori stessi a spronarli a quella che viene teorizzata come “esperienza all’estero da curriculum”, ma che, in molti casi, diventa definitiva. Se ad emigrare quindi sono i giovani ricchi figuriamoci i poveri! Sarebbe dunque bello capire nell’analisi il motivo della chiusura di quelle 6.000 imprese, in quale filiera erano, più che limitarsi a citare il settore e soprattutto di fronte a quali problemi insormontabili si sono dovuti arrendere. Certamente il credito è la vera palla al piede dei giovani o di chi, in generale, gestisce una attività individuale; le banche usano metodologie assurde con i piccoli per impedire loro il finanziamento, da riservarsi, per ragioni politiche, a grandi operazioni di speculazione che vedono come registi o i partiti stessi o “chiamiamoli imprenditori” loro prestanome.

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Il miliardo di Euro di buco della CARIGE lo hanno creato quei 6.000 imprenditori? Io sincerante non ci credo, anzi accuso ad altra voce: quei mille milioni di Euro sono finiti nelle mani di dieci persone: le navi si sa sono pezzi di ferro in molti casi arrugginiti, i grattacieli se non convinci il Papa, si ignorano i metodi, a trasferirci gli uffici del Vaticano rimarranno vuoti per i prossimi vent’anni considerando che i prezzi proposti dagli immobiliaristi al metro quadro non sono nemmeno così vantaggiosi rispetto ad una vastissima scelta di sezioni di palazzi in pieno centro attualmente vuoti. La verità è che le aziende, a prescindere dal settore di appartenenza, e che esercitino realmente o meno un rischio di impresa, continueranno a chiudere. Fino a quando non si rimetterà al centro il Lavoratore con i suoi sogni e i suoi sacrifici, fino a quando le banche non ritorneranno a voler valutare la serietà intima dell’individuo, dell’Uomo Qualunque che si reca in banca, senza conoscenze, a chiedere quei 5.000 massimo 10.000 Euro mettendo a garanzia il proprio nome, la propria parola, sarà dura invertire la triste statistica dei 6.000 decessi, perché vanno chiamati così, in 9 anni.

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