Nell’Orestea di De Fusco anche lo spettatore di oggi è giudice e testimone

Lo ha dedicato a Kaled Assad, il capo archeologo di Palmira, la vittima dell’Isis, l’uomo che ha pagato “con la vita il suo amore per l’arte e per la cultura”, Luca De Fusco il suo spettacolo che è in questo finale di stagione al Carignano (fino a domenica 14 maggio) per la stagione dello Stabile torinese – Teatro Nazionale

La notizia della sua uccisione arrivò quando De Fusco stava preparando lo spettacolo ed ecco allora questa Orestea che è un punto di visione verso il suo operato, verso la sua fede, in orrore alle Erinni trasformate oggi, in una società che ci interessa sempre più da vicino e che ci colpisce, nei nuovi assassini. Una trilogia – l’unica giunta sino a noi, fu rappresentata nel 458 a. C. – che ha il proprio compimento nella testimonianza della nascita del Diritto, che cancella la pratica della vendetta e dell’odio passati di padre in figlio e che trasforma la società arcaica in una società civile, dove i tribunali hanno un peso e una veste, una trasformazione che prolunga le proprie parole sino alla nostra – vacillante – età contemporanea. Si racconta, racchiusi in tre tappe, del ritorno a casa di Agamennone, vincitore a Troia, e del suo assassinio da parte della consorte Clitennestra, con l’amante Egisto, considerandolo essa il responsabile della morte della figlia Ifigenia, immolata sulla spiaggia alla partenza delle navi per il buon auspicio degli dei nell’imminenza della guerra (“Agamennone”); della vendetta che, con la sorella Elettra, compie il figlio Oreste (“Le coefore”) uccidendo la madre e l’amante, della sua fuga e del rifugio ch’egli trova tra le mura del tempio di Apollo a Delfi, con la richiesta ad Atena che il suo misfatto venga giudicato dal tribunale dell’Aeropago: sarà assolto con l’aiuto della dea mentre le feroci Erinni, sue persecutrici, si trasformeranno in Eumenidi (è loro il terzo titolo), benigne divinità della giustizia. De Fusco, cosa rara sui palcoscenici, ha voluto raggruppare il ciclo intero in un’unica serata, giocando di contaminazione; ovvero, non nuovo a questo intreccio di lavorazioni, agendo sulla sobria e attuale traduzione, privata di ogni retorica, ma egualmente “forte”, di Monica Centanni, ha unito la parola di Eschilo, antica, profonda, sanguinante pathos, alle proiezioni e ai video, alle musiche di Ran Bagno che fluttuano in un mondo che guarda in egual misura all’oriente come all’occidente, ai movimenti coreografici (a tratti mi sono sembrati “facili”) firmati da Noa Wertheim, traendone immagini altamente suggestive, laddove forse le preferenze personali vanno all’impianto del primo “Agamennone”, maggiormente fedele all’idea (scolastica?) che della tragedia da sempre abbiamo ma dovendosi pur sempre riconoscere che quell’Atena cinematograficamente cyber, perfetta fantasy, che occhieggia e stabilisce sull’alto della scena avrà il suo posto nell’elenco degli spettacoli dell’annata: anche perché affidata a un’attrice davvero eccellente, Gaia Aprea, già con un peso tutto suo nelle vesti della “verace sempre” Cassandra.

Uno spettacolo importante quello di De Fusco, che spazia tra le aree tecnologiche (i volti ingranditi sullo schermo, il campo e il controcampo, i vari riflessi degli attori tra palcoscenico e filmati) e che con giusti approfondimenti mette a tratti in primo piano quello spettatore che è ognuno di noi oggi, riaccendendo per esempio le luci della sala e rendendoci testimoni e giudici, al di là della parola, che con lo scenografo Maurizio Balò inventa uno spazio scenico davvero significativo: ai piedi di una porta grigia che s’apre e si chiude sul buio che è la reggia di Argo, una lunga pedana in leggero pendìo, che avanza verso la platea, ricoperta di terriccio scuro da cui risorgono alcuni personaggi e vari reperti qua e là e che s’accende di rosso in lunghezza nella sua parte centrale, sia sangue o tappeto rosso; che s’affida ai bellissimi costumi di Zaira De Vincentiis, capace di giocare ampiamente sul bianco e sul rossastro della regina degli Atridi e sul nerissimo delle Erinni, orrendi uccellacci, capitanate da Angela Pagano in perfetta forma. Se l’Oreste di Giacinto Palmarini non gode ancora appieno della veemenza e della maturità che gli appartengono, se forse è un po’ acerba la Elettra di Federica Sandrini, il resto della compagnia, venti attori in scena tra attori e danzatrici, vanta un risultato pienamente raggiunto, Mariano Rigillo (seppur di breve apparizione), Paolo Serra, Enzo Turrin, Anna Teresa Rossini e soprattutto, per l’ardore della sua regina, per quella gran carica di vendetta che per anni ha covato dentro di sé, Mascia Musy, bravissima.

 

Elio Rabbione

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