Natale d’altri tempi

Il racconto  di Barbara Castellaro

 

Di molte cose buone sono stato io a non voler profittare, quest’è certo – rispose il nipote; – e il Natale fra l’altre. – Ma il fatto è che io ho tenuto sempre il giorno di Natale, quando è tornato – lasciando stare il rispetto dovuto al suo sacro nome, se si può lasciarlo stare – come un bel giorno, un giorno in cui ci si vuol bene, si fa la carità, si perdona e ci si spassa: il solo giorno del calendario, in cui uomini e donne per mutuo accordo pare che aprano il cuore e pensino alla povera gente come a compagni di viaggio verso la tomba e non già come ad un’altra razza di creature avviata per altri sentieri. Epperò, zio, benché non mi abbia mai cacciato in tasca la croce di un soldo, io credo che il Natale m’abbia fatto del bene e me ne farà. Evviva dunque il Natale!

Charles Dickens “Canto di Natale”

***

Con il trascorrere degli anni, con il passare, inesorabile, inarrestabile, del tempo che mi avvicina alla definitiva separazione da questa realtà, mi accade, per uno strano fenomeno che non riesco a spiegare neppure a me stessa, di ricordare con difficoltà gli eventi più vicini e di vedere, invece, nitidamente, gli anni lontani, quelli dell’infanzia, i volti di persone che non ci sono più.

Mi ritrovo a vivere quei fatti, come se fossero il vero presente, in tutti i loro particolari, anche quelli più insignificanti, anche quelli marginali, privi di importanza.

Per contro, mi estranio dall’oggi, rifugiandomi altrove, in un mondo tutto mio, in una stanza dell’immaginario della quale solo io possiedo la chiave.

Non prendetemi per pazza e nemmeno per malata di un principio di demenza senile.

Gli anziani sono sempre considerati un po’ fuori di testa.

In realtà, siamo condannati a vivere di ricordi, non avendo più davanti a noi nessuna sfida, nessuna opportunità, nessun miraggio.

Abbiamo anche cessato di sognare, o almeno di farlo per noi stessi. Lo si fa per gli altri, per chi si ama.

Persino la speranza è un lusso che ci concediamo raramente ormai come se fosse un cioccolatino da gustare solo nei giorni di festa.

Negli ultimi tempi, da quando si sta affacciando, come uno spettro, il giorno del mio ottantesimo compleanno, ho ripreso a pregare.

Non l’ho fatto mai molto nella mia vita, soltanto quando avevo bisogno di qualcosa, cercando di scambiare fioretti con grazie e bestemmiando quando le mie richieste non venivano esaudite.

Mia nipote mi ha regalato una riproduzione della statua della Madonna nera di Oropa, identica a quella che aveva mia madre.

L’ho collocata sul comodino, accanto al letto. La guardo, le parlo come se fosse viva. Mi aiuta a sentirmi meno sola.

Quando arriva l’inverno mi chiudo in casa e mi rifugio davanti alla televisione per l’intera durata della giornata, fino a tarda sera.

E’ l’unico mio contatto con l’esterno.

Guardo di tutto e giudico ogni cosa, ogni fatto, come se il mio passato fosse trasparente e pulito, uno specchio senza incrinature, senza macchie.

Ma, ormai, mi è consentito farlo. A chi è anziano si perdona tutto.

A Natale compirò ottant’anni. Questo, forse, ve l’ho già detto. Mi ripeto un po’ e sono noiosa, lo so, ma anche voi perdonerete come fanno tutti gli altri.

La notte scorsa non riuscivo a dormire. Mi stanco poco di giorno e la notte diventa un lungo peregrinare dal letto alla cucina, dal salotto fino al letto, nell’attesa di veder filtrare la prima luce dell’alba attraverso le tende della stanza.

Non leggo più, non serve a conciliare il sonno. Penso, invece. Penso molto.

Senza sapere come, sono passata dal pensiero della festa che mi attenderà tra poco a quello di un Natale di tanti, troppi anni fa, il primo Natale che riesco a ricordare nitidamente, in tutti i suoi particolari, in tutte le sue sfaccettature: un Natale d’altri tempi.

Ed era tutto così reale, così vero, come se lo stessi vivendo di nuovo, come se la mezzanotte che il pendolo, nella scala, aveva appena scandito avesse portato con sé lo spirito dei Natali passati ed io avessi fatto un balzo indietro nel tempo, ritornando all’infanzia.

***

Sono nata nel 1929, l’anno dei Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa, in casa, una lunga cascina giallo limone, dispersa tra prati e vigne, nel Canavese, una terra così verde da fare male agli occhi in primavera ed in estate.

Era una casa di poche stanze, tutte gelate e umide, tranne la cucina, surriscaldata da una grossa stufa che serviva anche per cucinare.

Era una casa povera, una casa di gente umile, modesta, dove esisteva spazio soltanto per il lavoro e dove gli insegnamenti che si ricevevano erano quelli scritti sull’almanacco appeso in cucina.

La lotteria della vita mi aveva assegnato un posto su un vagone di terza classe.

Mancavano pochi giorni a Natale quando venni al mondo.

Mia madre diceva che i mesi invernali fossero i migliori per far nascere dei figli.

Capii presto perché. I contadini, nella buona stagione, non possono permettersi di stare a letto né per malattia, né per partorire.

Io ero la terza dei suoi figli. Uno era morto appena nato.

Ma, nelle famiglie come la nostra, non c’era tempo per il dolore. Si andava avanti e basta, in modo automatico, senza piangere su chi se n’era andato, con una sorta di rassegnazione.

Ero attesa per febbraio. Invece, la mia voglia di vedere il mondo, di conoscere quello che esisteva all’esterno della caverna buia vinse su tutto e a sette mesi pretesi di uscire e di lanciare verso il soffitto il mio primo vagito.

Mio padre, in primavera ed in estate, faceva il contadino.

In autunno vendemmiava e produceva vino, ma soltanto per le necessità della famiglia.

Durante l’inverno trasportava frutta secca e mandarini per conto di altre persone, fino ai mercati.

Era ancora notte fonda quando partiva per la città, avvolto in un tabarro pesante, il cappello calcato sulla testa piccola, la falda abbassata a coprirgli il volto magro, dalle guance scavate, due linee nette tracciate nella pelle come un bassorilievo.

Il suo carro, rivestito con un telone spesso ed impermeabile, era una tentazione per i tre bambini della casa: mio fratello, mio cugino ed io, una tentazione di mandarini profumati, di arance, di noci e di arachidi, quelle che chiamavamo “spagnolette”, di fichi secchi e di datteri che non potevamo assaggiare mai perché non appartenevano a noi, perché erano un tesoro che ci era stato affidato, ma dentro il quale non potevamo affondare le mani.

Avremmo potuto trascorrere ore intere a guardare le cassette.

Ma eravamo troppo poveri per permetterci di mangiare ciò che avrebbe dovuto essere venduto ed eravamo troppo consapevoli della nostra condizione per privare nostro padre anche soltanto di un frutto.

Non so perché, ma ho sempre pensato che il bambino povero cresca molto prima di quello ricco, di quello benestante che non deve lottare per avere un posto nel mondo, che può dare per scontato anche qualcosa di semplice, banale come una cena.

Per noi diventava una colpa persino desiderare qualcosa e così, restavamo a guardare, in silenzio, senza osare respirare, tutte quelle delizie che avrebbero arricchito la tavola di qualcuno più fortunato.

Non era una colpa essere nati dalla parte sbagliata della barricata. Non era colpa di nessuno. “L’essenziale – diceva mia madre – è non fare del male al prossimo ed avere la salute”.

E, durante i primi anni della mia vita, isolata in quella casa solitaria in mezzo a lingue di terra e bosco, fu facile credere che avesse ragione, fu semplice non sentire la differenza della nostra, della mia condizione, non dovendola confrontare con quella di nessun altro, non dovendomi ritrovare nella situazione di desiderare un abito oppure un paio di scarpe di raso lucente.

Ereditavo, senza preoccuparmi del loro aspetto, le scarpe che a mio fratello non andavano più. Ricevevo come un regalo gli abiti, i grembiuli, ricavati da quelli smessi di mia madre.

Quando ne avevo il tempo, giocavo con un cane meticcio, di un rosso tendente all’arancione, dal pelo lungo, che si chiamava Diana e che acconciavo come se si trattasse di una bambola.

Diana, animale buono di cuore, si prestava senza un lamento, alle mie rozze ed inopportune cure di bellezza, limitandosi a sollevare verso di me enormi occhi colmi di tristezza.

Ma, in fondo, credo che capisse che, a modo mio, le volevo bene.

***

E, poi, c’erano le bambole di foglie di granoturco che zia Valentina, se ne aveva voglia, in autunno, preparava e mi regalava, quelle fatte di foglie secche e modellate per sembrare bambine in miniatura, con abiti ampi come quelli di una dama dell’Ottocento.

Niente altro. Non si potevano sprecare e gettare via soldi per i giocattoli in una casa dove ce n’erano appena per vivere.

Eppure non posso dire di aver mai patito la fame.

Sia a pranzo che a cena c’erano sempre un piatto colmo di minestra o di polenta e latte, talvolta una frittata, talaltra un volatile arrostito o bollito, quando si era fortunati.

Non mancava mai il pane sulla nostra tavola.

Si faceva ogni quindici giorni nel forno in muratura in fondo al cortile ed usciva caldo e croccante, lasciando per giorni un profumo goloso di biscotto nell’aria.

Certo, verso la fine della quindicina, quel pane era diventato duro come le pietre e si poteva mandar giù soltanto immerso nel latte oppure accompagnato da parecchi bicchieri d’acqua, ma andava bene così.

Noi avevamo di che nutrirci. C’era chi stava peggio, molto peggio.

Da bambina non credo di avere mai osato chiedere qualcosa.

Semplicemente, alla fiera del Santo Patrono, mi limitavo a lanciare occhiate di nascosto a qualche giocattolo, ad un nastro per i capelli, forse, stando bene attenta che nessuno mi potesse vedere e fingendo, per lo più, indifferenza.

“Le cose si comprano quando si può e se ce n’è bisogno” diceva mia madre.

***

Mio padre, che il cuore buono avrebbe spinto a cedere e ad acquistare anche soltanto un dolce, un croccante, un torrone, non aveva però il coraggio di dire nulla ed accettava le decisioni altrui, limitandosi a scuotere la testa.

Aveva sempre subito la moglie, donna dura e forte, donna solida e sana di corpo, di idee e di principi e vi si era sottomesso.

Del resto, subiva anche il padre, mio nonno, che non poteva incontrare i suoi nipoti senza provare la tentazione di assestare loro uno scapaccione, così senza motivo, giusto per il gusto di menare le mani, oppure i piedi, a seconda di quello che gli risultava più comodo.

Il nonno non amava i bambini. Non so il perché, eppure ho sempre saputo che non ci amava.

Pertanto, avevamo imparato presto a tenerci alla larga da lui, a fargli, di nascosto, tutti i dispetti possibili, a rubargli le pere che nascondeva sotto il letto, con una sorta di ingordia frammista ad uno spiccato egoismo.

Tutto questo era realizzato senza lasciare traccia alcuna ed, anzi, cercando di scomparire per ritrovarci lontani quando lo avesse scoperto.

Mio nonno, da giovane, era stato un po’ libertino ed un po’ sognatore.

Si raccontavano strane storie su di lui, ma a bassa voce, per non farsi sentire, storie che cessavano appena noi, bambini, entravamo nella stanza, sfumando in sussurri ed indici della mano portati alle labbra per intimare il silenzio.

Si sedeva sempre a capo della tavola, alzando un pugno con le nocche dure come il legno per minacciare chi tra noi faceva rumore con il cucchiaio nel piatto fondo della minestra.

Dicevano che fosse ateo e che vedesse i preti come il fumo negli occhi.

In realtà, lo si poteva udire pregare, in un modo tutto suo, mentre vagava nella campagna o attraverso il cortile, ripetendo in dialetto una preghiera composta da lui, totalmente incentrata sull’interesse personale: “Signore, Signore, la vita e l’onore, soldi da spendere, roba da vendere, donne belle in questo mondo, Paradiso nell’altro, Signore non ti chiedo niente altro”.

Si trattava, effettivamente, di un’invocazione che toccava tutte le tematiche a lui care, senza tralasciare la sua grande debolezza per le belle donne e, tanto meno, la preoccupazione, sviluppatasi in tarda età, riguardante la vita dopo la morte, che il nonno auspicava sarebbe stata tra santi, angeli e cori celesti.

In fondo, non aveva commesso peccati così gravi da fargli meritare il Purgatorio.

Non era, in effetti, stato più cattivo di tanti altri ed, in terra, non aveva avuto una vita facile.

Perché, dunque, avrebbe dovuto “purgarsi” prima di accedere alla porta custodita da San Pietro?

Forse era un po’ blasfemo, ma in fondo più onesto di tanta gente che finisce per nascondersi dietro a falsi comportamenti, atteggiandosi a persona pia e timorata di Dio.

***

Il primo Natale che riesco a ricordare in modo chiaro e vivido coincide con il mio primo anno di scuola.

Ho potuto studiare soltanto fino alla quinta elementare e sempre a patto che, durante l’estate, aiutassi in campagna.

Poi dovetti rinunciare alla scuola.

Mi sarebbe tanto piaciuto fare l’Avviamento, ma mia madre puntò i piedi e disse: “No, ad una donna saper leggere, scrivere e far di conto basta ed avanza”.

Così accettai di “farmi mangiare i libri dalle capre”, come si diceva da noi, e di lasciare gli studi.

 

A scuola ritrovai, nella stessa classe, mio cugino Cino che aveva la mia età e tanti altri bambini del paese che già conoscevo.

Eravamo tutti poveri diavoli, ma di una povertà linda, dignitosa e sempre pulita, decorosa persino nei rammendi.

A me la scuola piaceva, sapete? Mi piacque fin dai primi giorni.

Era bello imparare a sillabare le parole fino a renderle frasi di senso compiuto, a leggere, a graffiare i fogli di carta spessa con il pennino, tracciando eleganti sbuffi di inchiostro nero.

La maestra ci leggeva i racconti di bambini poco più grandi di noi, ma coraggiosi ed impavidi come soldati, capaci di eroici sacrifici e di amor di Patria.

Erano storie piene di sentimento, di atti grandi, immensi, custodite in libri che, adesso, non vengono neppure più stampati, in libri che non interessano più.

Ma tutto cambia. Forse, un giorno, quando io non lo potrò più vedere, torneranno di moda.

I valori e gli ideali possono essere accantonati, mai uccisi.

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Io penso che ci potrà sempre essere posto per una bella storia, ben raccontata e che, in futuro, questi testi potranno uscire dalla biblioteca dimenticata dove li hanno confinati, pretendendo di riavere il proprio spazio.

Dicembre, quell’anno, arrivò con una rapidità sorprendente e portò con sé, amplificata, tutta la bellezza delle tradizioni natalizie.

L’albero, diffuso nei Paesi del Nord Europa, non si trovava nelle nostre campagne, non era conosciuto.

Si allestiva, invece, il presepe.

In cascina ne avevamo uno anche noi. Non so da dove provenisse o chi lo avesse comprato.

Statuine rozzamente realizzate in gesso, con colori vivaci, che comprendevano la Natività, i tre Re Magi, qualche pastore ed alcune macchie bianche a rappresentare le pecore.

L’8 dicembre lo si metteva sul tavolo della sala con uno sfondo color oro realizzato con una specie di carta da pacco che mio padre aveva recuperato al mercato, abbandonata tra i cartoni e le cassette e vi restava, ammirato, ma mai toccato da nessuno di noi che avevamo nei confronti di quelle statuine un timore reverenziale, durante tutto l’Avvento, fino all’Epifania che “tutte le feste porta via”.

A scuola come a casa si parlava continuamente e soltanto della nascita del Bambin Gesù, non certo dell’attesa dei regali come al giorno d’oggi.

Ad onor del vero confesso che guardo a quei tempi semplici con rimpianto quando, passando nei corridoi di un centro commerciale vedo scaffali pieni zeppi di giocattoli ed oggetti inutili, molti dei quali verranno regalati solo per senso del dovere, senza sentirlo veramente.

Noi attendevamo, con ansia, con impazienza, un Bambino speciale, quello che avrebbe salvato l’umanità: questo doveva essere festeggiato.

Almeno così diceva don Amilcare in chiesa ed in classe: quel bambino che, divenuto uomo, sarebbe morto su una croce.

Ed additava il crocefisso che, all’epoca, non aveva bisogno di alcuna sentenza per restare appeso alla parete, non recando nessuna offesa un martire che, innocente, aveva subito i tormenti della tortura e della morte, simbolo di tanti altri innocenti di tutto il mondo, appesi ad una forca.

Sono cose che non capisco queste, mi indignano, poi lascio perdere.

Mi darebbero della rimbambita e così lascio perdere.

***

Durante l’Avvento, anche i due chilometri che, al freddo e sotto la pioggia, dovevamo percorrere per raggiungere la scuola, divennero qualcosa di lieve.

Eravamo, infatti, smarriti in pensieri permeati di bontà, di bellezza, di unione, e, così, mettendo un piede dietro l’altro, arrivavamo senza nemmeno accorgercene davanti ai due cancelli, quello della scuola all’andata e quello della casa al ritorno.

Ricordo che faceva un freddo tremendo e le strade erano piene di pozze quando pioveva e spesso tanto gelate da non riuscire a restare in piedi.

I nostri abiti erano una barriera troppo leggera ed il gelo li penetrava come un punteruolo doloroso.

Ma l’unico mezzo di trasporto a nostra disposizione erano le gambe che tenevamo allenate e scattanti.

Le prove di bella grafia, le letture strascicate, ma abbastanza sicure ad alta voce, le piccole poesie da imparare a memoria, tutto appariva come un gioco in quel dicembre di attesa febbrile, scandita dalle campane della chiesa.

In un piccolo paese come il nostro, isolato e lontano dalla città, ogni festa diventa un evento e l’attesa è il momento più bello.

Pensateci: un giorno di festa brucia e si consuma rapidamente.

E’ l’attesa di quel giorno il momento magico, quello che veramente ci fa palpitare, ci fa battere il cuore, non ci fa dormire la notte e ci toglie il respiro.

Poi, quando arriva quella data, anche se tutto è stato bello, i nostri pensieri sono già rivolti alla sua fine ed ha già trovato collocazione nel ricordo e nel passato.

La mente è già volata a domani, perché l’uomo è fatto così. Non riesce a vivere il presente, vive di passato oppure di futuro, mai di presente.

***

Adesso, ad ottant’anni, io mi nutro di passato, mentre vedo mia nipote, i suoi amici con la mente rivolta al futuro, al domani, a quello che sarà, senza sapere utilizzare e coniugare il tempo della loro vita al presente.

La festa di Natale arrivò in un soffio, tra recite di poesie e racconti.

La Vigilia, un giorno in cui il cielo era cupo e pesante e prometteva di ricoprirci di neve, ci sorprese senza che nemmeno potessimo accorgercene, immersi come eravamo nella nostra euforia.

Ricordo, perfettamente, anche a distanza di settantaquattro anni, quel giorno uggioso, perché mio nonno se ne stava sull’uscio a borbottare, levando il pugno nodoso verso il cielo quasi a minacciare anche il Padre Eterno.

La neve avrebbe significato difficoltà negli spostamenti, difficoltà nel raggiungere la chiesa per la Messa di mezzanotte e soprattutto per ritornare a casa.

Il nonno scandiva l’anno liturgico con due Messe soltanto, non una in più, non una in meno: quella di mezzanotte a Natale e quella della mattina di Pasqua.

Riteneva, in questo modo, di fare il proprio dovere nei confronti di Dio e di salvare le apparenze con gli uomini che gli davano dell’ateo e che avrebbero dovuto rimangiarsi quella parola vedendolo entrare in chiesa almeno durante le feste comandate.

“Chi prega lavora” diceva.

Ma guai a chi gli avesse impedito di essere presente ad una di queste Messe.

Pertanto, lo preoccupavano non poco le condizioni meteorologiche ed era intrattabile.

A casa, però, c’eravamo soltanto mia madre ed io, quindi non osava sfogarsi ed alzare la voce.

Con mia madre, fin da quando era giunta, giovane sposa, nella sua casa, c’era stato un silenzioso e tacito patto di non belligeranza.

Entrambi, infatti, possedevano due caratteri troppo forti e, comprendendo, immediatamente, che avrebbero finito per scontrarsi continuamente ed inutilmente, senza ottenere alcuna vittoria l’uno sull’altra, avevano deciso di tollerarsi, per poi sfogarsi, a turno, su mio padre che si trovava così stretto nella morsa di padre e moglie.

Quel giorno a mia madre appunto dava un estremo e visibile fastidio l’andirivieni del nonno dal cortile alla cucina e, poi, di nuovo in senso inverso, proprio mentre lei era impegnata a preparare il pranzo per il giorno successivo, un pranzo che sarebbe stato speciale, unico, anche perché atteso per un intero anno.

Quel pranzo era la nostra debolezza, una debolezza che ci concedevamo soltanto a Natale e che si svolgeva, però, senza che il pensiero si distogliesse mai dal significato religioso della festa, dal momento che, tra una portata e l’altra, si continuava a ringraziare il buon Gesù per quello che ci aveva concesso.

Mia madre preparava tutto da sola o meglio aiutata da me che, pur bambina, mi reinventavo sguattera, pur di restarle accanto, prestandomi a tutti i servizi che voleva affidarmi, dall’andare a prendere l’acqua al porgerle gli ingredienti.

E tutto questo era già molto per una bambina di sei anni, ve lo assicuro.

La cucina veniva invasa da vapori che appannavano i vetri e dai profumi di brodo e di carne arrostita che solleticavano i sensi con la promessa del pranzo del giorno successivo.

Mia madre teneva il tavolo sgombro, lindo e lucido, per poter distendere sul suo ripiano lunghe e larghe strisce di pasta gialla sulle quali posava palline di un impasto fatto con tre carni mecolate al cavolo.

L’impasto era poi ricoperto con un’altra striscia di pasta ed, infine, venivano ricavati, tagliandoli a mano, grossi quadrati, gli agnolotti che avrebbero rappresentato il piatto forte del giorno successivo, ricchi e nutrienti com’erano.

L’unica portata del pranzo che non usciva dalle mani di mia madre era il dolce.

Il dolce di Natale, tanto atteso, non soltanto da noi bambini, veniva portato da Torino che, all’epoca, in paese, era vista come una città ricca, speciale ed irraggiungibile e questo semplice fatto lo rendeva qualcosa di meraviglioso e di indescrivibile.

La sorella di mio padre, zia Matilde, dopo essersi sposata, si era trasferita a Torino ed, in breve, aveva assunto lo stile e le abitudini della donna di città, non ultima quella di recarsi in pasticceria a Natale e portare con sé, avvolto in carta argento, un enorme panettone, arricchito con canditi, uva passa e mandorle, che veniva collocato su un tavolino e spiato, durante tutto il pranzo, con sguardi vogliosi.

Il panettone rappresentava il coronamento di un pranzo perfetto.

Quella vigilia, quindi, trascorse tra sbuffi di farina, profumi di arrosti, colori di grembiuli a fiorellini indossati per proteggere gli abiti ed improvvise correnti d’aria gelida causate dal nonno che, non solo non riusciva a stare fermo, ma che continuava a ripetere in modo monotono la stessa frase: “Nevicherà. Sono sicuro che prima di sera nevicherà”.

Non so se per rispondere alle sue affermazioni o semplicemente perché così era scritto che avvenisse, nel tardo pomeriggio iniziarono a volteggiare nell’aria piccoli fiocchi bianchi che, posandosi sulla lingua che sporgevo tra le labbra, avevano un sapore di metallo.

Natale senza neve non è un vero Natale.

Anche adesso che i miei anni sono tanti, quando mi affaccio alla finestra, la mattina di Natale e vedo il cielo azzurro e terso, il sole splendente che fa scivolare i suoi raggi attraverso i rami degli alberi, mi invade un senso di tristezza profonda e di nostalgia per quel candore gelido che abbagliava e che ha preso l’abitudine di non presentarsi più durante le festività natalizie.

Proprio mentre la neve iniziava a cadere, il cancello si aprì lasciando entrare il carro di mio padre.

Papà lavorava anche la Vigilia di Natale.

Dovrei dire che lavorava soprattutto durante la settimana che precedeva questa festa.

Era abitudine diffusa, infatti, che, nella città più vicina, si tenesse la grande fiera della Vigilia e quelli erano giorni in cui i servizi di mio padre erano utilizzati più del solito ed il carro partiva da casa nostra colmo di casse di frutta, rendendo ben più gravoso il lavoro del cavallo Nino, cieco da un occhio, che tendeva ad affidarsi più all’istinto che alla vista, menomata, ormai conoscendo a memoria la strada.

***

Quella sera, però, mio padre non ritornò solo.

Alla fiera aveva incontrato due amici, coscritti con lui sotto le armi, che abitavano in cascine poco lontane dalla nostra e li aveva portati a casa, per “far Natale” tutti insieme con un bicchier di vino, per stare allegri almeno una volta ogni tanto.

L’arrivo della neve aveva dato loro una gioia intensa ed incontrollabile che aveva spinto tutti e tre a cantare qualche canzone popolare sul Natale.

Tale allegria stonava alquanto con il cattivo umore del nonno che, però, si limitò a restare seduto in un angolo e a non partecipare alla festa, indirizzando a mio padre, tra i denti, un sommesso quanto irritato: “Non ritirare il cavallo. Stanotte si deve andare alla Messa”.

Mio padre aveva un carattere ospitale e gioviale ed avrebbe offerto i frutti delle proprie fatiche in campagna, anche durante l’anno, se mio nonno e mia madre non l’avessero fermato con sguardi di manifesta disapprovazione.

L’ospitalità era una cosa, sperperare un’altra.

Però a Natale nessuno poteva negargli di intrattenere gli amici e di consentir loro di scaldarsi.

Così ci ritrovammo tutti ammassati nella cucina bollente e profumata di rosmarino ad attendere che mio padre tornasse dalla cantina con due bottiglie di vino.

“E’ il mio, proprio il mio” ripeteva mio padre per dire che non solo proveniva dalla sua vigna, ma anche che l’uva era stata trasformata con il frutto del proprio lavoro e, mentre pronunciava quelle parole, gli occhi gli diventavano lucidi, lucidi per il piacere e l’orgoglio.

Uno degli amici, Samuele, rispondeva in dialetto: “L’ho sempre detto che tu, Berto, hai un bicchiere insuperabile”.

La frase di difficile traduzione in lingua italiana significava semplicemente che riteneva quel vino il migliore che avesse mai assaggiato.

Ed aggiungeva: “Se solo me ne volessi dare qualche bottiglia…pagando il giusto, naturalmente…”.

Ma su questo punto mio padre era sempre stato irremovibile: il vino si faceva per la famiglia e per offrirlo a chi andava a trovarlo, mai per venderlo.

Non ho mai compreso il perché di questa sua ostinazione. Forse pensava che la vendita avrebbe svilito quello che lui considerava il frutto di un piacere.

Quando, per raggiunti limiti di età, papà dovette cessare la produzione ne soffrì come se gli avessero sottratto qualcosa di prezioso ed insostituibile.

In realtà, il vino che produceva – lo compresi molti anni più tardi – era pessimo ed aveva un retrogusto acido, ma, a quei tempi, sembrava a tutti una prelibatezza da conservare e custodire.

Oggi le sue vigne non esistono più da molti anni.

Dopo la sua morte, mio fratello decise che, non potendosene occupare nessuno, era il caso che fossero sradicate.

Fortunatamente, mio padre non lo dovette vedere e questo mi è rimasto di consolazione.

Io non credo che i morti possano vedere quello che accade in terra. Turberebbe la loro pace eterna.

Al vino seguirono altri canti natalizi e gli amici rimasero per una tazza di brodo. Per quella soltanto, però.

Mia madre non avrebbe mai permesso che avessero accesso a quello che era stato preparato per il giorno successivo.

Le risate ed i cori riempirono la casa fino a quando mio nonno, gettando uno sguardo all’orologio a cipolla che portava sempre con sé appeso ad una robusta catena, non congedò tutti con un grugnito: “Si deve andare a Messa”.

Il capo famiglia era lui e noi dovevamo limitarci ad obbedire, senza poter discutere, né replicare.

***

Per bambini, abituati com’eravamo noi, ad andare a letto molto presto la sera, durante l’inverno, e a svegliarci prima dell’alba, quella Messa collocata proprio nel cuore della notte rappresentava al tempo stesso qualcosa di dolce e di gravoso, di dolce per l’anima, di gravoso per il corpo.

La strada da percorrere sotto la neve, a mezzanotte, la chiesa fredda, illuminata dalle fiammelle dei ceri, la lunga predica di don Amilcare, eccitato dal fatto di vedere riunite tutte le sue pecorelle, il presepe composto di statue grandi dai colori vivaci: tutto questo aveva il potere di attrarci e respingerci al tempo stesso, trasmettendoci un senso di timore per quel fasto, per quell’atmosfera tanto insolita.

Anche sulla panca dura, in quella notte, riuscii ad addormentarmi, con la testa appoggiata al braccio di mia madre che, impietosita, cercava di celarmi agli sguardi rapaci del nonno.

Però tutto era bello, tutto era pace: persino la neve, persino il freddo, persino le parole di don Amilcare che non comprendevo, ma che mi cullavano come una nenia.

Me ne rendo conto ora che mi trovo a guardare la me stessa di un tempo attraverso i vetri di una finestra immaginaria che non posso aprire, né varcare.

Non mi è consentito intervenire, né partecipare agli eventi. Non si può cambiare il passato, soltanto restare a guardarlo.

Era bello perché sentivo di avere tutta la vita davanti e non soltanto per quello.

Eravamo uniti, facevamo le cose senza secondi fini, felici del poco, senza aspettative e senza ambizioni.

Mi manca tutto questo.

Mi mancano mio nonno, mio padre, mia madre e mio fratello che ho visto andarsene l’uno dopo l’altro ed il mio sguardo è ormai rivolto al giorno in cui li ritroverò.

Man mano che aumentano i dolori, gli acciacchi, che ho bisogno di appoggiarmi ad un bastone per camminare, sento che questo giorno si avvicina e che, ormai non manca molto, la meta non è più distante.

Ma non ho paura, sapete? Certo, mi dispiace lasciare i miei cari, ma ho una voglia sottile e continua di vedere gli altri miei cari, quelli che non ci sono più, quelli assenti da questa terra.

***

Ma torniamo a quella notte. Una notte che vedo chiara e nitida attraverso questa mia finestra.

La Messa durò a lungo, un po’ per la predica, un po’ per i canti gioiosi, un po’ perché ci attardammo a scambiarci gli auguri con altre famiglie.

Poi, sempre sotto la neve, riprendemmo la via di casa.

Il carro avanzava piano, cigolando.

Con il suo grande telone bianco sembrava quello degli zingari o degli acrobati che arrivavamo, talvolta, in paese, accampandosi nei prati e con i quali, ogni volta, mio fratello sognava di fuggire, per vedere il mondo e cercare avventure.

Nino era stanco e manteneva un’andatura lenta e cadenzata.

Mia madre, mio fratello, mio cugino ed io ci eravamo rifugiati sotto il telone, sostituendo per una notte le cassette di frutta e respirandone il profumo che aveva impregnato il legno.

Il nonno, impavido, sedeva al freddo, esponendosi al vento ed alla neve, come un bravo nocchiero, dritto accanto a mio padre che teneva le redini.

Credo che si sentisse in pace per aver compiuto il proprio dovere nei confronti di Dio e che restasse fuori per controllare che il ritorno si svolgesse senza problemi ed arrivassimo a casa sani e salvi.

La stanchezza mi costringeva a passare continuamente da uno stato di dormiveglia al sonno, interrotto dal sobbalzare del carro sulle pietre della strada.

Mi sembrava di avere vissuto un sogno e non riuscivo più a ricordare quali fossero stati gli eventi reali. Vedevo muoversi intorno a me le statue del presepe come se si fossero animate ed il Bambino dalle guance rosee e paffute tendere le braccia dal suo giaciglio di paglia.

La neve cadeva abbondante, copiosa, sollevata dal vento in piccoli vortici gelidi ed andava a ricoprire la strada, i campi, i tetti.

Mentre scendevo dal carro, frastornata, infreddolita, avvolta in una sonnolenza che mi ovattava la mente, mi giunse, in lontananza, la voce del nonno: “Meno male che Tilde è arrivata ieri mattina o quest’anno avrebbe fatto il Natale in città con i signori”.

Nel pensiero, che conteneva il sollievo di sapere che la figlia non avrebbe dovuto mettersi in viaggio con il brutto tempo e che avrebbe potuto trascorrere il Natale, in cascina, con la famiglia, non aveva potuto fare a meno di abbandonarsi alla propria natura polemica ed anarchica, indirizzando una frecciata ai “signori torinesi” che sua figlia, secondo lui, ormai imitava come una scimmia, vestendosi, pettinandosi e comportandosi come loro.

Ci risparmiò le bestemmie, dato che era appena uscito, purificato, dalla cerimonia liturgica e ne continuava a subire gli effetti.

Io, dopo altri saluti ed auguri che mi parvero eterni, mi trascinai lungo le scale, affondando le scarpacce troppo grandi, trattenute da lacci spessi, nella neve e raggiunsi a fatica la mia camera.

Non mi dimenticai, però, di appendere al pomello del cassetto del comodino una mia calza, una di quelle calze spesse, lavorate ai ferri con la lana che era avanzata, che mia madre, durante l’inverno, ci costringeva a portare e che, quando si inzuppavano d’acqua, pesavano, nelle scarpe come pietre e ci provocavano geloni e raffreddori.

La maestra aveva detto che, a chi si era comportato bene per l’intero anno, il Bambino Gesù avrebbe portato un dono ed io mi sentivo tranquilla ed in pace con la mia coscienza e confidavo che sarei stata tra i fortunati.

Poi, vinta, mi abbandonai all’abbraccio delle lenzuola di tela ruvida del letto ed al suo tepore dovuto al fatto che aveva ospitato fino ad un momento prima uno scaldino del quale io stavo prendendo il posto.

Dormii profondamente un sonno senza sogni e fui destata dal gallo che, neve o non neve, non mancava mai al proprio appuntamento mattutino di sveglia vivente.

Avevo l’abitudine, trasmessami da mia madre, di non indugiare a letto, sotto le coperte, di alzarmi subito e di scacciare i residui del sonno offrendo il volto all’acqua ghiacciata del catino, con la quale mi lavavo, ripetutamente, il viso.

Terminato il rituale, quella mattina, il mio sguardo scivolò attraverso la stanza alla ricerca della calza.

Non era più appesa al comodino, bensì appoggiata in terra, accanto al letto ed era gonfia e straripante come una cornucopia.

Dentro vi trovai tre mandarini, un pacchetto di fichi secchi con le mandorle, uno di datteri ed un Bambin Gesù grasso e roseo, con i riccioli biondo oro, tutto fatto di zucchero, tanto bello che non so se avrei avuto mai il coraggio di mangiarlo.

Seppi più tardi, quando iniziai a non credere più a presenze magiche che visitavano la casa durante la notte di Natale, che la frutta arrivava da quelle cassette caricate sul carro che osservavo tutto l’anno con desiderio.

Mio padre, in occasione del Natale, comprava qualche pacchetto di frutta secca ed un sacchetto di mandarini perché non restassimo delusi al nostro risveglio e potessimo trovare anche noi un regalo come gli altri nostri compagni di scuola.

Il Bambino di zucchero era, invece, un’iniziativa della sorella di mia madre, zia Teresa.

Zia Teresa era tra gli invitati del grande pranzo a casa nostra e, “per non arrivare a mani vuote”, come diceva lei, preferiva comprare qualcosa per i bambini, da mettere nella calza.

Mia madre non approvava pienamente questa scelta.

Meno ancora mio nonno che avrebbe preferito qualcosa di utile.

Ma, dato che zia Teresa dei suoi soldi poteva fare ciò che voleva, evitavano entrambi di dare giudizi e mio fratello ed io beneficiavamo di queste sue attenzioni.

Scesi in cucina, portando con me il mio “tesoro”, la ricompensa del piccolo Gesù per essere stata buona.

Mio padre, seduto a tavola, davanti ad una scodella di latte caldo, sorrideva tutto contento.

Aveva già strigliato e nutrito Nino che stava al riparo, nella stalla, ed ora si concedeva la colazione a base di pane e latte.

***

Nel corso della mattinata si susseguirono, incalzanti ed inarrestabili, i “Buon Natale” e gli “Auguri” e la casa iniziò ad animarsi e ad affollarsi.

Nonostante la neve fosse caduta durante tutta la notte, imperturbabile ed indisturbata, e continuasse a scivolare dal cielo senza sosta, morbida e gelida, senza intenzione alcuna di fermarsi, nemmeno per una breve tregua, tutti i parenti attesi, invitati, giunsero con le guance rosse un po’ per il freddo, un po’ per il piacere.

Giunse zia Teresa, quella del Bambin Gesù di zucchero, con un cappotto nuovo, rosso fuoco, al quale stavano appese tre bambine di età diversa.

Giunse zia Valentina, con zio Pietro ed il cugino Cino, portando tre salampatata avvolti in carta spessa, da utilizzare come antipasto.

Zia Valentina era sempre stata una donna piuttosto parsimoniosa con la propria roba, anche se poi, a casa degli altri, dimostrava un sano, vorace e robusto appetito.

Giunse zia Matilde, elegantissima in un completo color tortora, con il cappello inclinato di lato sui capelli corti, alla moda, con i guanti di capretto per proteggere le mani, con lo zio Giovanni ed il piccolo Giulio, l’uno da una parte, l’altro dall’altra, come due valletti.

Alla vista della figlia, mio nonno nascose un sorriso compiaciuto sotto i grossi baffi curati ed impomatati, limitandosi, però, quando lei si avvicinò per baciarlo, a dirle con voce catarrosa e dura: “Da quando hai preso l’abitudine di profumarti come le donnacce di Parigi?”.

Il nonno alludeva al delicato profumo di violetta di Parma che emanava dalla zia e che per lui rappresentava un’altra abitudine cittadina, una degenerazione dei costumi.

In quanto alle “donnacce di Parigi”, il nonno conosceva bene la categoria, essendo stato a lavorare in Francia, in gioventù ed avendole frequentate, mentre suo fratello, per trascorrere le domeniche preferiva a quei trastulli dispendiosi, quello più fruttuoso di recuperare le monete sul fondo delle fontane.

Dalla Francia mio nonno era poi dovuto fuggire in fretta e furia, forse lasciando dietro di sé il frutto di amori proibiti e scandalosi.

Zia Tilde che conosceva troppo bene il carattere del padre e la sua predilezione per lei per prendersela o ritenersi offesa, gli rivolse un luminoso sorriso e passò oltre, senza neppure replicare, pienamente consapevole di essere l’unica della famiglia a poter fare quello che voleva.

Il nonno rimase sull’uscio della sala a tormentarsi i baffi fino a quando tutti gli ospiti non si furono accomodati a tavola.

Era una tavola lunghissima, dove si stava stretti, sedia contro sedia, mano contro mano, sorriso accanto a sorriso.

In un angolo, sul tavolino bello, faceva mostra di sé il grosso dolce torinese, con la carta d’argento e con i nastri larghi e rossi, ammiccando e promettendo piaceri infiniti e un po’ peccaminosi e faceva da contraltare al presepe che, placido, silenzioso, ma splendente, ci ricordava il senso vero della festa.

Io, seduta tra mio fratello e mio cugino Cino, tenevo sulle ginocchia il Bambino e la frutta e non riuscivo a separarmene neppure per un istante perché quel contatto mi scaldava il cuore.

***

Posso vedere chiaramente la me stessa di allora: piccola, magra, con gli occhi grandi e verdi, felice, tanto felice da non riuscire a trattenere le lacrime.

I vetri della mia finestra sul passato iniziano ad appannarsi, piano, piano, angolo dopo angolo.

Tutto si oscura come se si stesse chiudendo un sipario.

Il ricordo, la memoria sembrano non volermi sostenere più.

Provo a spingere gli occhi indeboliti dalla vecchiaia, oltre la cortina di fumo, per cercare di scorgere qualcosa.

“Ancora, un istante, ti prego. Lasciami un momento ancora per vedere la stanza. Fammi entrare per pochi minuti. Mi basteranno per rivederli tutti, per salutarli ancora una volta, per ritrovare quei cari volti e dir loro “Buon Natale”. Ti chiedo soltanto questo, Bambin Gesù”.

Ma i vetri sono appannati, ormai.

Non si vede più nulla e nulla più si sente: né risate, né musica, né voci.

Tutto è silenzio.

“Papà, mamma, nonno…” provo a chiamare.

Nulla. Nessuna risposta.

E’ la memoria che mi sfugge, è il ricordo che mi tradisce.

La finestra è buia e riflette me stessa.

Il pendolo della scala ha iniziato a battere l’ora. “Dan, dan, dan, dan, dan, dan”. Sei colpi.

Sono già le sei. Mi riscuoto.

Mi sono addormentata come una vecchia stupida sul divano ed ho sognato, forse, proprio io che non sogno mai.

Deve essere stato uno scherzo della nostalgia, quella che assale gli anziani.

Sì, sono vecchia ormai, una vecchia svanita che ragiona con il cuore e non con il cervello.

Mi alzo. Preparo il caffè, nero, amaro, bollente.

Lo bevo, guardando l’alba livida, guardando la luce entrare nella stanza sempre più forte.

Quella che mi attende sarà una bella festa, ne sono sicura. So anche che mi hanno preparato regali e sorprese. Mi vogliono bene.

E stanotte anche Dio mi ha voluto fare il suo dono: mi ha fatto rivivere momenti poveri e belli, un Natale d’altri tempi, tempi senza televisione, senza aerei che fendevano il cielo, senza viaggi, crociere e settimane bianche.

Voi giovani non sapete nemmeno di che cosa sto parlando, vero?

Avrei voluto poter vedere ancora, ma va bene così. Non sono delusa, anzi sono grata al Bambin Gesù per tutto, nel bene e nel male. Lo ringrazio e mi sento in pace.

Tutto deve avere una fine, anche il ricordo.

Adesso so che è questo, quello presente, il Natale che mi interessa vivere, non il Natale di ieri e nemmeno il Natale di domani.

Ho bevuto un sorso di gioventù, ora è arrivato il momento di riprendere il mio posto di ottantenne un po’ svampita, com’è giusto che sia.

Cerco di vivere al meglio quello che è il mio presente, non mi interessa altro.

Domani rappresenta un’incertezza, un’incognita.

Ieri è lontano, remoto, trascorso e sepolto sotto tutta la neve di questa mia esistenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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