I migranti nelle caserme torinesi e la solidarietà del ministro smemorato

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pinotti_grazianoLa città ospita esuli, rifugiati e immigrati da tre secoli. Anche senza Pinotti

 

 

Costruisci una capitale sulle caserme e sugli stabilimenti industriali, ti affezioni a immagini di baietti in coda al distretto militare e di baracchini che affollano il 92 sbarrato, ed è un attimo che i milioni di baionette si arrugginiscono e che la fabbrica si mette a parlare Inglese e a produrre in Serbia o a Detroit. Abbiamo appena festeggiato un trentennio di uscita dal club delle città con oltre un milione di abitanti, ed ecco che, con poca fantasia, la ministressa Pinotti (nomina sunt consequentia rerum, con tutto rispetto), a margine di una stanca passerella istituzionale al Salone del Libro, offre la disponibilità del Ministero della Difesa a offrire le caserme per alloggiarci i profughi dal Canale di Sicilia. La notiziona non ha generato frisson d’effroi  né in precollina né alla Falchera o alla case Snia. Neppure una misera raccolta firme di qualche esponente leghista in vena di battaglie di principio. Sarà che forse Torino le ha viste tutte? 

 

La ministressa forse non ha considerato il vezzo torinese di interpretare la Parigi di provincia, ospitando tra Otto e Novecento esuli, anime in pena e visitatori più o meno illustri in fuga dai quattro angoli del Pianeta: a Torino vennero a studiare, nascondersi o spegnersi, insieme a centinaia di attivisti carbonari, nazionalisti  e liberali (senza Torino non si sarebbe scritto Piccolo Mondo Antico), figure come Lajos Kossuth, Friederich Nietzsche, Juan Domingo Peròn, per citarne soltanto alcuni. Ma in fatto di profughi con minor fascino dell’esule maledetto, Torino non si fa insegnare nulla dalla prima Pinotti che passa: è stata la città italiana, dopo Roma, che ha ospitato più profughi italiani in fuga dalla Libia all’avvento di Gheddafi, e prima ancora dall’Istria-Dalmazia (acquartierati provvisoriamente, manco a dirlo, in casermette e fabbricati militari, prima di finire, in un inedito esperimento di dumping sociale, nei nuovi quartieri delle Vallette). Degli immigrati dal Sud è stato detto e scritto abbondantemente: hanno di fatto raddoppiato la popolazione nell’arco di due decenni, stravolgendo l’impianto sociale e urbanistico della città.  E’ difficile però spiegare oggi a un ventenne che il Calabrese degli anni ’60 non era meno malvisto del subsahariano di oggi, sopravvissuto a Lampedusa. Provate a fargli leggere La donna della Domenica (con visione dell’ottimo film) e forse se ne farà un’idea. Per quanto riguarda gli africani immigrati (o rifugiati, ché i confini tra categorie ahimé sono fluttuanti, e il balsero in fuga da Boko Haram può passare dallo status di richiedente asilo, guardato con colpevole solidarietà dalle anime pie dell’associazionismo, a quello di illegale guardato a vista nei container del Centro Identificazione ed Espulsione di Corso Brunelleschi), da almeno vent’anni ci ingegnano a metterli qua e là negli edifici sopravvissuti alla loro utilità.

 

Prendete le scuole: è dai primi anni ’90 che si insediano, ovviamente sempre “in via sperimentale” e attraverso il “progetto pilota”, gli immigrati negli edifici dismessi . Ci hanno provato a Mirafiori Sud, al Lingotto e persino alla Falchera, che di suo già non è una vetrina di qualità urbana. L’esperimento di solito non funziona. Sarà forse per questo che in una ex scuola delle Vallette sono finiti i Giudici di Pace, che sono un po’ i sans papier dell’amministrazione giudiziaria italiana. Per non parlare della più recente “riconversione delle riconversioni”: il villaggio olimpico del MOI, trasformato non in ricovero per poveri esuli, ma in repubblica autonoma multietnica, sottratta all’ordinamento italiano, fondata sulla delinquenza di strada e sulla risoluzione delle controversie a mezzo accoltellamento. In Municipio ancora conservano una galleria di immagini dei Sindaci degli anni eroici, quelli che si sono affannati a costruire case, scuole, fognature e ospedali  per evitare che trecentomila operai immigrati dalle campagne meridionali e insulari finissero a vivere nelle villas miserias e che Torino diventasse una disordinata metropoli sudamericana.  Noi Torinesi un Pincio non ce lo possiamo permettere: troppo vistoso. Ma non per questo bisogna dimenticare che Torino, in fatto di accoglienza, non deve certo aspettare la generosità fatta cadere dal Ministro pro tempore.

 

fv

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