Mercatini di libero scambio e sicurezza

Recentemente fa a Torino si è consumata una vera e propria tragedia in pieno giorno, all’interno della struttura del mercatino di libero scambio sito in via Carcano: il nigeriano Kahlid Be Greata ha ucciso con un unico fendente alla gola Maurizio Gugliotta, originario di Catanzaro, ma residente da tempo a Settimo Torinese

Un omicidio apparentemente per futili motivi, che deriverebbe, all’origine, da un diverbio sugli spazi all’interno della struttura, che non può che colpire inevitabilmente l’opinione pubblica sia per l’oggettiva gravita del reato sia per il contesto dove si è consumato. Questi mercatini, ormai costituitisi nelle città più grandi, sono oggetto di dibattiti sia sui giornali sia tra la gente, molto spesso non solo per la loro ubicazione, che sembra essere sempre improvvisata in qualche zona d’ombra e, quindi, facilmente soggetta a degrado, quanto per la più completa mancanza di servizi igienico-sanitari a norma, per la manifesta inadempienza rispetto agli obblighi fiscali, la non tracciabilità di quanto commerciato e, infine, per la sicurezza intesa non solo quale rispetto di norme riguardanti la legge penale, ma soprattutto per quelle spesso non scritte del vivere civile, anche perché chi vuole aprire una attività di vendita al dettaglio in termini regolari viene sottoposto a una serie di procedure che, a molti, oggi sembrano non poco vessatorie.

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L’immigrazione nel nostro Paese sta diventando sempre più un fenomeno invasivo non solo nei numeri, ma anche nella percezione della presenza di individui, tendenzialmente africani, ai quali, in nome di una presunta “accoglienza”, ma, mi realtà, di una degenerazione della stessa, si concede nei fatti, rispetto a tanti italiani in evidente difficoltà, un binario preferenziale: vitto e alloggio presso una cooperativa convenzionata, la possibilità di lavorare, alla fine, quale ambulante presso un mercatino di solidarietà, dove lo scontrino fiscale è un optional e lo spazio assegnato costa giusto qualche euro al giorno. Ovviamente chi ha un occhio attento sa che la realtà non è proprio così come quella che appare, visto che, come è emerso anche dai media, vista la criticità del fenomeno, in molti centri di accoglienza queste persone, delle quali una parte è composta da riconosciuti profughi e da una restante di cercatori di fortuna, sono effettivamente costrette a soggiornare in strutture sovrappopolate, senza un numero di docce adeguato e, in alcuni casi, mal nutriti, oggetto di una feroce speculazione da parte di chi li gestisce in termini convenzionati con l’amministrazione pubblica. Molte di queste donne entrano nel racket della prostituzione, mentre gli uomini presenziano costantemente tutti i bar cittadini nell’intento di questuare la carità nell’insofferenza dei titolari dei pubblici esercizi e dei loro clienti. Chiaramente il fenomeno, nella sua complessità, non poteva che venir politicizzato dalle parti, spesso anche in termini invasivi e violenti, cercando di inserire la polemica in situazioni che hanno, in realtà, prettamente origine da violazione del diritto sia da parte delle Prefetture nella collocazione dei migranti in strutture troppo spesso non a norma, secondo i criteri di abitabilità tramite bandi di gara confezionati con urgenza e dei quali, pur essendo atti pubblici a pena di nullità, si fa molta fatica a entrarne in possesso o addirittura in visione, da parte delle cooperative, nei termini di ospitalità delle persone a loro affidate, in ultimo ai richiedenti asilo che, in molti casi, probabilmente vivendo situazioni di forte stress, turbano la quiete pubblica con schiamazzi nei migliori dei casi.

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Tanto clamore anche a livello nazionale sta destando la vicenda dell’asilo Govone sito a Genova Pegli, nella frazione di Multedo, dove la Prefettura locale ha affidato al momento una dozzina di migranti ad una cooperativa, che li avrebbe collocati all’interno di una struttura di proprietà di un ente religioso di suore, che ha ereditato la palazzina a seguito di una donazione di privati, con il vincolo della destinazione di uso ad asilo per bambini, nella sorpresa e, quindi, anche nella paura di tutto il quartiere che, necessitando di una struttura dove affidare la propria prole nelle ore lavorative, si è visto chiudere dalle suore una struttura a tutti gli effetti efficiente e più che giustificata da un punto di vista economico e sociale, salvo poi, alla fine della recente estate, in termini del tutto casuale, assistere alla sua riapertura, questa volta per ospitare inizialmente centinaia di migranti, salvo poi aver constatato la reazione del quartiere, dopo aver ridimensionato il progetto iniziale. Ho sentito troppe volte apostrofare questi residenti come razzisti, fascisti nei termini più ottimistici, e quali semplici egoisti; ma, nei fatti, chi può coscientemente criticare una mamma italiana di quarant’anni con due figli piccoli, che si ritrova proprio nel mezzo del quartiere, per chi non lo conoscesse, pedonalizzato da stradine più che veri e propri passi carrabili, una struttura con soggetti scarsamente identificati dei quali si sa poco e niente e sui quali i primi a non essere trasparenti e di dialogo con l’opinione pubblica sono le istituzioni con i loro rappresentanti e dirigenti?

 

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