Ma cosa sta accadendo in Libia?

FOCUS / di Filippo Re

Tre governi, due Parlamenti, una nazione divisa in due grandi regioni, Tripolitania e Cirenaica. Eserciti, milizie e clan tribali si combattono tra loro per il potere e per il controllo di petrolio e gas.

Ma cosa sta accadendo in Libia? Mentre il Paese sprofonda nel caos e nella guerra civile, anche le forze di sicurezza italiane presenti a Tripoli e la nostra nuova ambasciata finiscono nel mirino di gruppi armati islamisti.

Roma, 6 giu. (askanews) - "Grande avanzata" delle forze che fanno capo al governo di unità nazionale libico che pur con "pesanti perdite umane" sono riuscite ad conquistare una caserma militare che dista appena 20 chilometri a sud-est di Sirte, roccaforte del Califfato sulla costa settentrionale del Paese Nordafricano: Lo riferiscono media locali. Secondo quando scrive sul suo sito on-line la tv Libya Channel il comando delle operazioni "al Bunian al Marsus" (dall'arabo "Struttura Solida" come viene denominata l'operazione per la liberazione di Sirte) del governo di unità nazionale "dopo violenti combattimenti con gli elementi del gruppo terroristico, le nostre forze hanno preso sotto il controllo la caserma militare nota (all'epoca di Gheddafi) come 'La Brigata al Saadi' nella zona di Abu Hadi" che si trova a 20 chilometri a sud-est di Sirte. Secondo fonti militari "la presa di questa sede apre lo spazio per il controllo della strada che collega l'entroterra con il centro di Sirte". Di "grande avanzata" verso Sirte ma anche di "dolorose perdite" parla l'inviato degli Stati Uniti in Libia, Jonathan Winer citato dal sito news locale al Wasat. In un tweet postato sul suo account stamane, l'inviato americano ha scritto che "le operazioni militari contro l'Isis in Libia sono riuscite a tagliare le vie dei rifornimenti a est come a ovest e sud della città di Sirte". Secondo al Wasat il pronto soccorso dell'ospedale di Misurata ha ricevuto ieri sera il corpo di tre militari uccisi nei combattimenti vicino a Sirte oltre ad una ventina di feriti.

Non è facile capire in che mani è finita la Libia così come è arduo comprendere cosa stia accadendo a poche centinaia di chilometri dall’Italia. Certo la Libia in questo momento non è del generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, appoggiato da russi ed egiziani, e neanche del governo legittimo di al-Sarraj, insiediato a Tripoli dall’Onu, e nemmeno delle altre milizie che, approfittando del vuoto di potere, spadroneggiano nel Paese stretto nella morsa del caos e vicino a una guerra civile non più tanto lontana. È in balia dell’anarchia nonostante i buoni propositi della comunità internazionale, e in primis dell’Italia, di dare quanto prima stabilità al Paese.

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Libia-990x660All’indomani dell’ennesima prova di forza delle milizie islamiste fedeli all’ex premier Khalifa al-Ghwell, legato alla Fratellanza musulmana e sostenuto da Turchia e Qatar, che hanno tentato di prendere il potere a Tripoli ai danni del fragile governo di unità nazionale di Fayez Sarraj, la novità che balza fuori dalle acque del Mediterraneo è la presenza insistente di navi da guerra russe davanti alla Cirenaica. Le zampe dell’orso russo si allungano aggressive sul Maghreb dopo aver colpito duramente in Siria. È in questo modo che Putin entra con forza nello scenario geopolitico nordafricano schierandosi di fatto con il generale Haftar. Nemmeno la Libia rivoluzionaria di Gheddafi negli anni Settanta si era gettata in modo così plateale e spregiudicato nelle braccia dell’ex Urss. A quell’epoca, al colonnello della Jamahiriyya arrivavano ingenti aiuti militari da Mosca ma le sue navi ormeggiavano ai porti libici per scaricare gli armamenti e ripartivano, come avveniva di frequente a Tobruk. Era un andirivieni normale di imbarcazioni della Marina con bandiera rossa, falce e martello, ma non esistevano sul suolo libico vere basi sovietiche. Lo stesso Gheddafi, all’apice dello scontro con Reagan, poco prima del libia-400x200bombardamento americano di Tripoli (15 aprile 1986), ripeteva che, nonostante l’amicizia e i legami con l’Urss, non avrebbe mai ospitato sul proprio territorio aree militari sovietiche o di altri Stati. Ci voleva uno zar come Putin per andare a caccia di basi lungo le coste del Mediterraneo, dalla Siria al Maghreb. Su quella siriana può già dirsi soddisfatto con la base aerea di Khmeimim a Latakia oltre a disporre a suo piacimento della base navale di Tartus che già Hafez al Assad concesse ai sovietici nel 1971. Putin e Bashar Assad hanno appena firmato un accordo per allungare la presenza russa per altri 50 anni e per aumentare le dimensioni di Tartus che potrà ospitare almeno dieci navi militari.

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Ma alla sua flotta probabilmente non basta la Tartus siriana. Il presidente russo vorrebbe insediareLibia-Harta sulla costa di Bengasi una seconda base e ne vorrebbe un’altra anche sul litorale egiziano, a Sidi el Barrani, sfruttando le ottime relazioni con il presidente Al Sisi, segnando così una svolta storica con l’Egitto dopo la cacciata di tutti i consiglieri militari russi dal Paese del Nilo ordinata da Sadat nel 1972. Obiettivi ambiziosi e rischiosi ma finora esistenti solo sulla carta e nei sogni di Putin. Il generale Haftar avrebbe firmato un’intesa con gli ammiragli russi a bordo di una portaerei al largo della Cirenaica che prevede la realizzazione di una base navale e aerea russa sulla costa della Libia, la prima in Nord Africa, a meno di 500 chilometri dalle acque territoriali italiane. Sembra di tornare ai tempi in cui, sulla tolda delle navi da guerra si stringevano alleanze militari, come avvenne nel 1945 nel Canale di Suez, a bordo dell’incrociatore Quincy tra Roosevelt e re Saud d’Arabia, libiache garantiva ai sauditi protezione militare in cambio di petrolio. Non è certo un mistero che i rapporti tra Haftar e Mosca siano stretti e solidi già da tempo come dimostrano le visite ufficiali del generale di Tobruk al Cremlino, ricevuto con tutti gli onori di un capo di Stato, per chiedere armi e sostegno logistico al suo esercito cirenaico. “La Russia si muove in modo serio, commentava Haftar al “Corriere della Sera” qualche giorno fa, e fornirà armi solo dopo la fine dell’embargo nei nostri confronti che Putin vuole cancellare”. Il petrolio è al centro di ogni contesa, perchè la Libia è un immenso pozzo di greggio come ben sappiamo e le ricchezze del sottosuolo non sono un fattore marginale nei piani del Cremlino. L’assistenza dei russi al generale libico potrebbe essere un gesto ben calcolato per contare di più nell’area mediterranea, avvicinarsi al settore energetico nordafricano e controllare il traffico commerciale e militare lungo le coste. Mentre il petrolio fa gola a molti, da Haftar ai tripolini e alle numerose milizie in lotta per il controllo dei giacimenti, la produzione di greggio continua a crescere passando da 200.000 barili al giorno di un anno fa ai 700.000 di oggi, sebbene sia ancora molto lontana dai livelli dei tempi di Gheddafi quando superò un milione e mezzo di barili.

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libia33Chi controlla le risorse petrolifere controlla la Libia. Nell’estate scorsa le truppe di Haftar occuparono i pozzi nell’est lasciati pressochè indifesi dal governo di Al Sarraj, più un fantasma che un governo, troppo debole per difendersi dalle minacce e dagli attacchi ai palazzi del potere, provenienti da più parti e anche da milizie che sembravano ormai sconfitte. In Libia ci sono almeno tre governi in lotta tra loro: quello di Sarraj, nato dall’accordo firmato in Marocco nel dicembre 2015 con la mediazione dell’Onu, quello laico di Tobruk di Abdullah al-Thani con Haftar comandante dell’esercito, appoggiato da Egitto, Russia e Emirati Arabi Uniti e l’ex governo islamista guidato da Ghwell fino all’arrivo di Sarraj a Tripoli nel marzo 2016. Anche l’Italia è nel mirino delle forze che si oppongono all’esecutivo tripolino appoggiato da Roma e il recente attacco ai “ministeri” della capitale e nei pressi della nuova ambasciata italiana è una chiara sfida al nostro Paese. I gruppi islamisti e laici chiedono il ritiro dei soldati italiani da Tripoli e di non interferire negli affari interni libici.

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Dietro il fallito golpe della settimana scorsa ci sarebbero bande di criminali che si arricchiscono con i barconi stracolmi di disperati diretti in Italia e ora si sentono minacciati dall’accordo tra Roma e Sarraj per frenare i flussi migratori. L’intesa prevede massicci aiuti italiani per sorvegliare le coste, bloccare scafisti, combattenti stranieri e impedire il traffico degli immigrati africani. Dalle intese resta però fuori il generale Haftar che accusa l’Italia di complicità con i suoi nemici. Le milizie di Zintan, alleate di Tobruk, minacciano intanto di attaccare gli impianti Eni del terminale di Mellitah se l’Italia dovesse continuare a sostenere il governo legittimo. La resa dei conti fra Tripoli e Tobruk si avvicina. Le alternative sono il dialogo e la riconciliazione nazionale che paiono però impossibili.

Filippo Re

(dal settimanale “La Voce e Il Tempo”)

 

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