La stirpe dei Brueghel. Oltre cento capolavori alla Reggia di Venaria

Cinque generazioni d’artisti ad abbracciare circa centocinquant’anni di artebrueghel pittorica. Ovvero la dinastia dei Brueghel che – sino al prossimo 19 febbraio, a rappresentare l’ottavo appuntamento di una mostra itinerante già collaudata tra Tel Aviv e Parigi, tra Roma e Breslavia e Bologna con più di un milione di visitatori – offre, all’interno delle Sale delle Arti della Reggia di Venaria, una parte dei propri capolavori, più di un centinaio di opere suddivise in sette sezioni, sviluppandosi il lungo e affascinante viaggio da Pieter Brueghel il Vecchio (cresciuto alla bottega di Pieter Coecke, di cui divenne genero avendone sposato la figlia Mayeken: e sempre, nei decenni, la ragnatela degli insegnamenti, degli allievi e dei matrimoni soprattutto contribuì non poco ad allargare quella “famiglia” che Georges Marlier definì “les Bruegheliens”), attivo dalla metà del XVI secolo – che, scrisse Giovanni Arpino, “non fu quel “burlone” che parve a diversi critici ottocenteschi francesi, ma un uomo mite, serio, di poche parole, gran lavoratore, attento a scoprire i peccati altrui, pronto a ritrarli, benché odiasse a morte ogni forma di pettegolezzo quotidiano” – sino a Abraham, morto negli anni Novanta del XVII a Napoli, dove s’era stabilito al termine del viaggio in Italia intrapreso già dai suoi predecessori e pressoché obbligatorio per la formazione di ognuno, ricordato con il soprannome di “il fracassoso”, il che la dice lunga se messo a paragone con quello legato al nonno Jan il Vecchio, “dei velluti”, per la straordinaria capacità tecnica che lo aveva contraddistinto.

bruegel2Sette sezioni che hanno inizio con “Il giudizio morale” in cui campeggiano “I sette peccati capitali” di Hieronymus Bosch (1500 – 1515), surrealista ante litteram che capovolge i canoni di una pittura ancora intimamente legata ai canoni dell’arte sacra e spiana la strada al capostipite Pieter Brueghel il Vecchio, nato a Breda intorno al 1525 e scomparso nel 1569. I mutamenti, le riflessioni, i gusti che hanno dato vita alla rivoluzione copernicana della pittura fiamminga maggiormente s’avvertono nella “Natura regina”, dove, fatto sconosciuto e impensabile nel panorama italiano, non è l’uomo al centro della ricerca dell’artista – da noi sono gli anni di Michelangelo e Raffaello ma Brueghel non li avverte – ma quanto lo circonda per cui, anche attraverso i risultati della Riforma protestante e delle teorie calviniste, egli viene a essere parte di un mondo più complesso e universalizzato (del 1602 – 1605 il “Riposo durante la fuga in Egitto” di Jan Brueghel il Vecchio”, del 1565 il “Villaggio fiammingo con contadini al lavoro nei campi”, splendido lavoro a quattro mani di Martin van Cleve e Jacob Grimmer). In “Soldati e cacciatori” campeggiano due capolavori, “La trappola per uccelli” di Pieter Brueghel il giovane, un innevato paesaggio dove il pericolo che potrebbe sconvolgere la vita di quanti pattinano o giocano sul fiume è paragonato al rifugio che gli uccelli cercano sotto la tettoia, incuranti della fune che il cacciatore ha teso dalla finestra in alto; o ancora neve e soldati nella “Strage degli innocenti” di van Cleve, dove al tema tragico s’introduce lo sberleffo – quasi d’obbligo l’attualizzazione degli ambienti per i Brueghel e compagni – del militare sorpreso a orinare al centro della tela.

Ad Anversa, che sta allevando una nuova classe borghese e che potrebbe definirsi la caput mundi dell’epoca, forte dei commerci, delle spedizioni, delle presenze di studiosi nei campi più diversi, delle scoperte di nuove rotte, certo degli artisti che omaggiano i nuovi eroi nelle cui case troveranno posto le loro opere, alle “storie di viaggiatori e mercanti” è dedicata la quarta sezione. Cui seguono leinsetti-bruegel “allegorie” (“dell’amore”, “dell’udito” dovute alla maestria di Pieter Brueghel il Giovane, sintesi efficace per rendere immediatamente comprensibili concetti o gli elementi della natura o i sensi umani. Ai fiori, intesi allo stesso tempo come immagine eterna di armonia e di vanitas destinata a scomparire, è destinata “Splendore e vanità”, capace di ospitare le più ricche nature morte, anche qui gioielli di Jan Brueghel il Giovane e di Ambrosius Brueghel, autore di “Vaso con tulipani e dalie” (circa 1650), specchio non unico di quella “tulipomania” che nacque dallo smanioso interesse per i bulbi di tulipano sino a raggiungere prezzi elevatissimi per vedere, nel 1637, un crollo improvviso della domanda. A suggello della mostra, uno sguardo sugli sbandati, sui ladri, sugli ubriachi, sui goffi, sui visi incattiviti e brutti, sui mendicanti, sui poveri matrimoni, sulle virilità esposte, sui balli, sugli sguardi avidi, sulle lascivie, sulla carnalità che circola nei tanti quadri del tempo: forse addolcito il tutto da pennellate di pregevole grazia, quali “Le tre Grazie con un cesto di fiori”, d’ispirazione rubensiana, a firma Jan Brueghel il Giovane e Frans Wouters e in prima fila, vera chicca dell’intera mostra, lo “Studio di insetti con fiore di borragine” di Jan van Kessel il Vecchio, nipote del capostipite, pienamente seicentesco, su rame, capolavoro di osservazione e di resa, ambedue prestiti della torinese galleria Caretto&Occhinegro.

Elio Rabbione

Nelle immagini, dall’alto:

  • Marten van Cleve, Paesaggio invernale con la Strage degli Innocenti”
  • Pieter Brueghel il Giovane, “Danza nuziale all’aperto”
  • Jan van Kessel il Vecchio, “Studio di insetti con fiore di borragine”
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