La pazzia dell’imperatore e lo sberleffo di Carlo Cecchi

Carlo Cecchi ha con Pirandello un rapporto e un giudizio conflittuali, lo considera il più grande autore italiano ma pure il più insopportabile. Prevale – diciamolo subito – in modo sfacciato questa antipatia di fondo condita con una buona dose di gelido sarcasmo, per cui, dopo aver invaso in anni addietro il campo dell’autore siciliano con le rivisitazioni dell’ “Uomo la bestia e la virtù” e dei “Sei personaggi” ecco che oggi si diverte a banalizzare, come un bambino che dispettosamente faccia le linguacce, quel mostro dell’”Enrico IV” scritto nel ’21 per Ruggero Ruggeri. Le forche caudine inevitabili sono una riscrittura a volte violenta nei confronti del testo e lì sotto Cecchi è costretto a passare. Ma ci passa con gioia. Che in cent’anni circa qualcosa di fumoso e di annebbiato, di troppo acquoso e di macchinoso ci sia è innegabile, che la macchina teatrale scricchioli e possa aver bisogno di un piccolo colpo di manutenzione da anni Duemila potremmo comprenderlo. Ma. Come ognuno sa, un uomo senza nome s’è richiuso da tempo nella pazzia “ideale” e creduta da tutti all’indomani di una caduta da cavallo durante un carnevale in cui aveva assunto la maschera di Enrico IV, non quello di Francia cinquecentesco (e su questo s’era preparato il malcapitato ultimo arrivato tra i servi che con lui si sono esiliati) ma quello che secoli prima attraverso Matilde di Toscana ottenne a Canossa dopo tre giorni d’attesa in mezzo alla neve di gennaio il perdono papale. I cavalieri e le dame di quel tempo sono ora riuniti, nell’eremo dell’imperatore pazzo, a rappresentare un’altra volta quel gioco, quella cavalcata e quel travestimento, Matilde la donna amata un tempo e quel barone Belcredi che ha preso il posto del vecchio amore, il medico che dovrebbe trovare la via della guarigione con l’improvvisa apparizione della giovane Frida, uguale alla madre giovanissima come una goccia d’acqua. A quel sotterfugio l’uomo non ci sta, afferra una spada, sbudella il buon Belcredi e si affossa vita natural durante nella propria pazzia. Anche Cecchi a quei sotterfugi teatrali, alla commozione cerebrale, alle disquisizioni senza fine non ci sta. Comincia, tra il Bignami e il fast food, a ridimensionare come un forsennato, a ridurre i tre canonici atti ad un unico blocco di 90’, via via via gli intervalli! per carità, a prosciugare di parecchio le lunghe battute del primo attore, guardando di sbieco la Grandattorialità, e a giocare a far apparire in miglior luce gli altri personaggi, a modernizzare il linguaggio di Pirandello seppur con una gran bella risata lasciando e ripetendo certe parole, quelle che già stridono e farle stridere ancora di più, gioca al teatro con i quattro suoi consiglieri, rovistando nella tragedia alta che diventa una insignificante fiction e potendo contare anche su chi s’è preso il compito di riportarlo, copione alla mano, sulla retta via quando lui s’allontana troppo dall’impianto originale. Perché s’allontana. Non gli interessa tanto il percorso da e verso la pazzia del protagonista né la fatidica capocciata – è stato lui a scegliere liberamente di fingersi pazzo, conscio ormai del mondo che gli si è aperto davanti -, scova e gli interessa il pirandellismo del teatro nel teatro e chiede a Sergio Tramonti una scena che abbia le quinte mobili di uno spazio teatrale e una superficie specchiante sul fondo in cui Enrico si possa guardare sempre più spesso mentre recita con le spalle rivolte al pubblico, in una non-dizione tutta di oggi. Tra uno sfrondare e l’altro, tra una linguaccia e uno sberleffo, il Cecchi nuovo autore trova le occasioni per farci riascoltare un breve brano di una lettera di Pirandello a Ruggeri, improvvisare il grido “Hanno ammazzato compare Turiddu” dalla “Cavalleria” di Mascagni con l’allegria di “Noi siam come le lucciole” e – prima degli applausi finali di un pubblico del Carignano estremamente divertito – un indifferente e frettoloso “dai, alzati, che domani sera abbiamo un’altra replica” rivolto al Tancredi che fino a un secondo prima cercava di esprimere tutta la sua sofferenza come neppure il Gallo morente. Ridicolo andare a cercare il “qua insieme, qua insieme… e per sempre” della tragedia finale, manco da parlarne. Nel pastiche gli stanno accanto Angelica Ippolito, Roberto Trifirò, Gigio Morra, Dario Iubatti, Chiara Mancuso e altri, estremamente obbedienti. I costumi, preziosi, sono di Nanà Cecchi.

 

Elio Rabbione

foto Matteo-Delbò

 

 

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