"La morte di Danton" al Carignano, i fiumi di sangue di ogni rivoluzione

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre

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C’è, alle spalle della fatica odierna di Mario Martone, una strada recente, percorsa a cavallo tra cinema e teatro, che lo ha spinto a gettare uno sguardo approfondito, a comporre una precisa visione della Storia, ad analizzare i meccanismi di costruzione e di distruzione che coinvolgono gli uomini di questo o quel secolo: una strada che ha le sue tappe precise nelle Operette morali, in Noi credevamo, nel Giovane favoloso. Tappe che, dal canto loro, non sono momenti incrostati a quel preciso momento storico ma coinvolgono l’oggi che noi viviamo, andando a toccare i nervi dolorosamente scoperti della condizione umana, a farci ripensare alle ragioni rivoluzionarie e alle loro immancabili storpiature, al nichilismo, alle promesse gettate via, agli integralismi e al terrore. Assistendo oggi, sul palcoscenico torinese del Carignano per la stagione dello Stabile, alla messa in scena della Morte di Danton, senza alcuna forzatura registica, ci si accorge, nella limpidezza dello svolgersi dei fatti, nella frenesia della parola, nelle arringhe e nei tradimenti, nelle apparizioni di un popolo maldestramente vociante, nell’ammasso di teste rotolate giù dalla ghigliottina, quanto di rassomigliante esista a mettere a specchio epoche anche lontane tra loro. danton

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre, quanto il primo tenti, pur con le mani grondanti sangue per le uccisioni di cui nei mesi precedenti s’è macchiato anche lui, di cancellare o per lo meno di allontanare gli eccessi di violenza dell’antico compagno, divenuto incorruttibile e implacabile, un leone pronto a negarsi ad ogni legame d’affetto e d’amicizia e a scagliarsi contro chiunque. Dalle parole di Büchner nascono due personalità possenti, splendidamente messe a fuoco, l’uno ormai legato ad ogni effetto della vita quotidiana, pronto a rendere una vita ormai inconsistente, quasi ieratico l’altro nella sua violenza senza ritorno, incastonate in una Storia più grande di loro, pronta ad agguantarli e a stritolarli, in un confronto spietato che non conosce più pause, ricordi, realtà eccessive con cui placidamente confrontarsi. Ai loro piedi i compagni dell’ultima ora e non soltanto, il popolo (qui affetto da troppa napoletaneità ad ogni costo, che forse ha il pregio di raggiungere ogni tempo e ogni luogo o il difetto d’accontentare gran parte della compagnia) arruffato, pronto a cadere in braccio a questo o a quell’altro, inconsapevolmente, disgustosamente.

In una perfetta cornice “teatrale”, La morte di Danton si muove entro un palcoscenico inventato da Martone stesso, cinque sipari di velluto rosso in continue aperture e chiusure, ove si concretizzano (e ricordiamo qui l’apporto non indifferente dell’intera squadra tecnica alla riuscita a tutto tondo dello spettacolo: corale, dicevamo, inevitabilmente quindi ancora bisognoso di ritocchi, di un riordino in certi passaggi, di briglie a questo o a quello per un amalgama maggiore, penso per esempio alla scena del carcere all’inizio della seconda parte, a certe “invasioni” popolane) tribunali, salotti, interni domestici, prigioni, strade che invadono con un bel colpo d’occhio per lo spettatore l’intera platea, fiumi in piena che nella loro corsa trascinano tutto e tutti. Una compagine di trenta attori a ricoprire un grumo della Storia del mondo nei bei costumi di Ursula Patzak, tra cui almeno vorremmo citare un veemente quanto amorevole Denis Fasolo che è Desmoulins, Fausto Cabra implacabile Saint-Just, perfetto nell’urlo della propria arringa, Irene Petris rassegnata Lucile, Paolo Graziosi un Thomas Payne ragionatore perfetto, Giuseppe Battiston che è Danton e soprattutto l’eccellente prova di Paolo Pierobon, per il ritratto che regala del suo Robespierre, chiuso nella torre d’avorio della propria sanguinolenta volontà di uccidere.

(foto: Mario Spada)

Elio Rabbione

 

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