Il visitatore di Agatha Christie arriva nella casa alla ricerca dell’assassino

Grande ricamatrice di plot e di intrighi, di dialoghi sottili e di psicologie dentro cui scavare con il bisturi più affilato, Agatha Christie scrisse L’ospite inatteso nel 1958, non traendolo come in tante occasioni da uno dei suoi racconti ma confezionandolo direttamente per il palcoscenico. Un eccellente thriller, con un eccellente inizio. In una di quelle nere notti come solo la campagna inglese può partorire con il buio e i suoi silenzi attraversati soltanto da qualche latrato, un uomo entra all’improvviso in una casa, in cerca di aiuto, a seguito di un incidente che gli ha fatto abbandonare l’auto in un fosso. Entra e alla poca luce di una pila scorge un uomo che immediatamente si rivela vittima di un omicidio, un colpo sparato alla nuca, e accanto a lui la moglie, con una pistola in mano. Pronta ad accusarsi della morte del marito. Come in certi film hitchcockiani, tutto è – o parrebbe – sin troppo chiaro fin dall’inizio. Tutto già definitivo. Sta all’autore rimescolare le carte, dare nulla per scontato, confondere con successo ed emozioni la mente dello spettatore, creare sospetti robusti per abbandonarli o rinfocolarli lungo gli sviluppi del dramma, accentuarli o abbozzarli in un crescendo di situazioni e di dialoghi eccezionalmente efficaci. E costruire soprattutto un alternarsi di fattori che lascino intravedere quante ombre presenti l’innocente e quanti spiragli possano aprirsi dietro il comportamento di un presunto colpevole. E sappiamo in questo quanto fosse brava la nostra giallista. La vittima aveva conti aperti con parecchia gente, si divertiva a sparare ai gatti la notte, era un buon bevitore e per quell’incidente che lo aveva messo su di una carrozzina e aveva procurato la morte di un bambino, non sentiva alcun rimorso.

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Anche lo sconosciuto visitatore vuole inspiegabilmente tirare fuori dai guai la giovane donna, forse perché una bellezza simile non può ritrovarsi sotto processo e finire certamente condannata, l’importante per ora è costruire indizi che possano sviare le indagini. Non nascondendo che la donna, in apparenza legata al marito, coltiva una relazione con un amico di lui e per tacere della vecchia madre che tutto sembra dirigere, del fratellastro con un cervello che fa un po’ acqua, dell’infermiere che al momento buono è pronto al ricatto per quel che ha visto quella notte, della governante che sfugge ad ogni certezza. Andrea Borini, mettendo in scena il testo all’Astra, nuova produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa per la traduzione di Edoardo Erba, svolge con credibilità il proprio compito di srotolare sospetti, insinuazioni, sconcerti, e di comporre un valido discorso teatrale. Quel che personalmente sconcerta è quella strada verso il (preteso) versante comico, superfluo, purtroppo irresponsabile, quel vizio di sgonfiare certi personaggi per renderli delle macchiette, quel dar spazio a balletti tragicomici, quasi a voler alleggerire (ma perché?) una tensione che dovrebbe conservare al contrario il suo effettivo peso. Oppure a peccare di esplicazioni visive fuori luogo, quando si sente in dovere di illustrarci la dinamica dell’incidente attraverso certe ombre cinesi che passano su di una tenda inverosimilmente tirata lì su due piedi. Ne risentono anche certe interpretazioni, quelle più mollicce (gli investigatori con gesti e battute e strani movimenti) che vogliono proprio strappare la risata, o quelle risultate meno a fuoco (la Laura di Daria Pascal Attolini – caricata anche di uno squinternato costume – o il maggiore Farrar di Alessandro Meringolo o la governante sbiaditamente sulle spalle di Silvia Iannazzo). Di un gradino più sopra dei compagni, Giuseppe Nitti è lo schizzato fratellastro amante di ogni arma da fuoco, Gisella Bein una granitica madre, Andrea Romero un subdolo ricattatore e Stefano Moretti gioca con puntualità il suo ruolo di visitatore che regge tra le mani i fili di ogni altro personaggio.

 

Elio Rabbione

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