Il lavoro per la felicità

Questo è il senso: appassionarsi per diffondere positività

Di Paolo Pietro Biancone *

 

L’altro giorno ero sul treno che mi portava a Roma, indaffarato per mille scadenze da portare a termine, e la mia attenzione è stata richiamata da un addetto all’assistenza passeggeri, che lavorava con il sorriso. Distribuiva giornali, generi di conforto e dispensava sorrisi di soddisfazione e fierezza. Comunicava che era lì per volontà e ne era felice e orgoglioso.Insomma, senso di gratitudine che sprizzava da tutti i pori e comunicava buon umore e positività contagiosi. Un gran bel biglietto da visita per l’azienda che l’addetto rappresentava.Questo è il senso del lavoro: amarlo, appassionarsi per diffondere positività.Non è la remunerazione monetaria che induce ad amare il proprio lavoro, ma la remunerazione personale e sociale che ne deriva, in termini di soddisfazione e appagamento. Una frase famosa recita “scegli un lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno, in tutta la tua vita”. È così!

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E ancora, Primo Levi sosteneva che “trovare un lavoro che si ama corrisponde alla migliore approssimazione della felicità sulla terra”. La guida è il talento e la formazione che lo asseconda. Il talento si distingue profondamente dalla passione: talento è avere le premesse fisiche e mentali per poter svolgere un determinato mestiere; altro è la passione che è determinato da fattori anche di diversità, di ciò che non posso. Non sempre passione e talento si coniugano: e questo si vede bene nello sport, io posso essere un appassionato di calcio, ma senza avere il talento per poterlo praticare a livello professionale. Non è un limite, ma una caratteristica. Secondo l’ultima edizione del World Happyness Report, diffuso dal programma di sviluppo sostenibile dell’Onu, è la Norvegia il Paese più felice del mondo, seguito dall’Islanda e la Danimarca. L’Italia si colloca al 50esimo posto. Al di là delle classifiche interessante è individuare le modalità di calcolo del prodotto interno lordo di felicità: esso è in base al reddito pro capite, alle aspettative di vita, al livello di corruzione e alla percezione di sé. Tutti elementi che hanno di per sé motori positivi: la passione, il talento, la fiducia e l’impegno. La ricerca sottolinea che le persone ben retribuite sono più felici, ma i soldi non sono tutto: sulla soddisfazione incidono anche l’equilibrio vita-lavoro, la varietà del lavoro e il livello di autonomia. La percezione di sé e dell’importanza che si riviste nel ruolo sociale e famigliare è altrettanto rilevante e remunerativa, forse di più di un alto stipendio.

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E se poi si è alla ricerca della professione “giusta”, ci si imbatte in statistiche sui laureati che “guadagnano” di più, rispetto ai non laureati. Lauree più remunerative di altre. La laurea è remunerazione famigliare, significa portare a termine un percorso di studio, con il supporto della famiglia. Ma è nella scelta il successo: chi sceglie in base ai propri talenti, avrà sicuramente un percorso più facile e soddisfazioni garantite. L’altra faccia della medaglia è la delusione, la frustrazione, il disagio personale e sociale. La laurea non dà necessariamente la felicità, ma dà autorevolezza sociale. La felicità e la soddisfazione è data da un mix di elementi che partono dalla persona e da come si colloca nel contesto sociale di riferimento; l’aspetto monetario ne è corollario, non elemento determinante. Saper cogliere le sfumature di questo, aiuta a relazionarsi meglio con le scelte e con le opportunità, superando i limiti che il pensiero comune impongono, puntando a una realizzazione personale che a catena coinvolgerà positivamente le aziende, in territorio, le famiglie e tutto il contesto.

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*Professore ordinario di Economia Aziendale

Coordinatore del corso di dottorato in Business & Management

Università di Torino

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