Il Capitano di Lavia vittima dei perfidi raggiri della moglie

Duro, vecchio, solidissimo teatro. Fuori del nostro tempo, un’immagine eternamente ferma e bloccata, se non fosse per l’eterna lotta tra i sessi che ancora oggi crudelmente troppe volte sfocia in fatti di sangue. Quindi la immutabilità fotografata da Gabriele Lavia nel mettere in scena – per la terza volta lungo la sua carriera – Il padre di August Strindberg, fino a domenica sul palcoscenico del Carignano per la stagione dello Stabile torinese. Un testo (del 1887) che autobiograficamente gronda misoginia (e assistere alla replica della serata dell’8 marzo qualche problema l’ha comportato), la vivisezione di un rapporto coniugale che deflagra allorché il Capitano pretende in una discussione d’imporsi alla moglie Laura circa l’educazione della figlioletta Berta, che lui vorrebbe spedire in città a farsi le ossa per diventare una brava insegnante. “Un capolavoro di dura psicologia”, lo definiva Nietzsche, e la rabbiosa introspezione calata nei caratteri, l’arretrare continuo e lento dell’uomo, il gioco perfido della donna che manipola anche i più piccoli indizi e s’accaparra tutti gli occupanti della casa, la vecchia balia e il pastore suo cognato, il medico arrivato da poco e messo lì immediatamente a giudicare una situazione e a schierarsi, gli stessi giovani militari della guarnigione, anche la ragazzina che al contrario ad ogni incontro stravede per la figura paterna, ogni momento della tragedia è uno studio perfetto e carico a suo modo di una dolente umanità. Il gioco e la forza della donna hanno il sopravvento quando fa entrare nell’animo e nel cervello dell’uomo il tarlo e il dubbio di una paternità che potrebbe far guardare Berta con occhi diversi. Strindberg tende con ogni sua forza verso il Capitano, spalleggia una parabola inevitabilmente dolorosa, svela a poco a poco le ragioni del suo rifugiarsi negli studi – quelli che la donna ha cercato in ogni modo di ostacolare, nascondendogli quelle lettere che erano per lui i rapporti e gli sviluppi con i vari editori -, come la logicità nel contrastare le opposizioni che come una banda di ciechi gli presentano quanti gli stanno intorno. Il mondo del Capitano, quello familiare come quello militare (come ha sempre governato questo vorrebbe governare quello), sparisce, anche quello delle stelle, suo ultimo baluardo, viene meno mentre lui cerca di recuperare la propria dignità di uomo e di padre con le stesse parole dello Shylock shakespeariano: e sotto lo sguardo della Vincitrice, la vecchia balia lo aiuterà a indossare la camicia di forza. Stretto in un’epoca in cui la scienza non aveva ancora prodotto i mezzi per una sicurezza paterna, chiuso nella cupezza di un primo atto della lunghezza di un’ora e 55’ e di un secondo, quasi come una liberazione per il protagonista, di 25’, quasi soffocato in uno spazio di enormi tendaggi rossi che calano vertiginosamente sino giù in platea (la scena è firmata da Alessandro Camera, con le poltrone e la scrivania e l’orologio che scandisce le ore tenuti sghembi e incerti, i costumi sono di Andrea Viotti), luogo dell’intimità e del dolore nel finale, una volta spogliato di ogni arredo, Lavia costruisce senza risparmio personale uno spettacolo angoscioso, soffocante e lentissimo, ma grandioso, in cui la fa da padrone, con un ritratto di protagonista, granitico nella voce e negli atteggiamenti prima, un esempio di resa perfetta poi, che s’acclama per la saggezza con cui lo compone, per la disperazione e la drammaticità di quel suo perdersi tra le grinfie della sua personale altra metà del cielo. Di fronte a lui un’incisiva Federica Di Martino e tutti gli altri in ottima resa. Se una stonatura c’era, possiamo averla ritrovata in quell’incessante bamboleggiamento della balia e della figlia soprattutto, che si sarebbe potuto alleggerire o assolvere del tutto.

 

Elio Rabbione

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