Il “caffè nero” che uccide il vecchio scienziato e le “celluline grigie” di Poirot

Torino Spettacoli continua a perlustrare con successo il pianeta Agatha Christie. Terreno fertile, certo da non abbandonare. Per l’attuale stagione – dopo una settimana al Gioiello da domani sera si cambia casa, ovvero per trasferirsi all’Alfieri sino a domenica 25 novembre, per ritornare dove si è partiti, ancora al Gioiello, dal 27 novembre al 2 dicembre: è chiaro che con il passaparola e la fedeltà del pubblico se ne dovrà poi riparlare -, riscopre Caffè nero per Poirot (Black coffee), una commedia scritta nel 1929 e portata in palcoscenico l’anno successivo, l’unica in cui il freddo raisonneur abbia trovato posto, temendo l’autrice che potesse distrarre l’attenzione dello spettatore dagli altri personaggi, un meccanismo perfetto come solo la signora sapeva inventare, un dialogo serrato (qui nella traduzione di Edoardo Erba) che acchiappa chi assiste ad ogni scena sempre più, man mano che scendiamo verso il finale inatteso – come si conviene -, il tutto avvolto nel punto centrale delle “celluline grigie” dell’insuperabile detective belga, ancora una volta in trasferta nella campagna inglese con il fido Hastings.

Una grande casa, alta borghesia, sontuosa cena e abiti da sera, lo scienziato che s’è visto sottrarre una formula chimica di immenso valore cui stava lavorando, l’invito a Poirot a raggiungerlo per scoprire il ladro, ma troppo tardi, se non per constatare che il vecchio Amory è stato ucciso da un caffè avvelenato (il veleno, grande alleato della scrittrice, fin da quando iniziò a corteggiarlo con la sua prima opera, Poirot a Styles Court, nel 1915). Dal maggiordomo dai modi impeccabili al medico italiano, che sembra nascondere segreti più di chiunque altro, tutti sono sospettabili, nessuno in ogni momento è mai come sembra, dal figlio del padrone di casa che non coltiva certo un buon rapporto con il genitore, alla nuora che odia l’Italia, sua terra d’origine, e che ha trovato tranquillità e calore in quella famiglia, alla figlia che ostenta un’allegria che forse dovrebbe mettere in guardia. Per chi ha la bella abitudine di abbandonarsi alle storie e ai meccanismi dell’autrice, sa benissimo quanto sia capace, tremenda sorniona, di seminare qua e là tra le pagine particolari e sospetti e piccoli indizi con il solo piacere di gettare ombre su questo e su quello, per poi cancellare tutto e convogliare gli stessi su un terzo condannabile. È il gioco della distrazione, predisposto ad arte, la costruzione degli inganni portata avanti in ogni perfetto tassello. La regia di Girolamo Angione (dal progetto artistico di Piero Nuti) dà un bel ritmo all’intrigo, calibra gli impercettibili movimenti che danno il via al misfatto come quelle figurine in odore di peccato, ricrea con esattezza, tra suspence e divertimento, le giuste atmosfere. Guida un gruppo d’attori, tutti giovani o giovanissimi, che (finalmente!) piace vedere già bell’e pronti sin dalle primissime repliche nella completa credibilità che danno ai personaggi. Li citiamo tutti: Roberto Marra, Elisabetta Gullì (un piccolo successo personale la sua sproloquiante signorina Amory dalla voce stridula), Elena Soffiato con un paio di scene di bella maturità, Giuseppe Serra, Arianna Pozzi, Giovanni Avalli, Elia Tedesco (carico di incredibili ciarlatanerie pur di distrarre lo spettatore dal suo vero ruolo, folle, perfettamente straniante, capace di attirare l’”inspiegabile” attenzione che il regista gli ha costruito sino in fondo), Alberto Greco, Simone Moretto (un Poirot che dipana con intelligenza la matassa, che forse vedremmo più a suo agio con qualche tono in meno di voce, più metodico indagatore), Giovanni Gibbin e Stefano Cenni. Un bel successo che consigliamo non soltanto per i ferrei amanti del giallo.

 

Elio Rabbione

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