I dubbi interpretativi di Gabriel Garko, tra il vecchio Barrymore e la signorilità di Pagliai

Bel faccino e fisico aitante ma lato interpretativo a quota zero o poco più, Andrew Rally è un divo del piccolo schermo che reduce dalla solita fiction di successo decide un giorno di votarsi al palcoscenico: ovvero rinunciare temporaneamente a qualche milione di dollari per rifarsi una faccia d’attore un po’ più pulita. E con il ruolo di Amleto che farebbe tremare a chiunque le vene e i polsi. Dal mondo dorato di Los Angeles ai patemi di New York il passo è breve e trovare casa nella casa del Greenwich dove negli anni Venti visse il grande John Barrymore, Amleto d’oltreoceano per eccellenza, attraverso i consigli di una svampita agente immobiliare, è cosa presto fatta. Se poi l’agente è anche un po’ medium, perché non stimolare in una traballante seduta lo spirito del vecchio a venire in aiuto del ragazzo a corto di mezzi e d’esperienza? Cigolii e lampi improvvisi ed eccoti là nel grande salone servito il John in calzamaglia e giacca di velluto neri, a lavorare sull’essere o non essere per sei mesi: per ritrovarsi alla fine, dopo la prima, con un pubblico annoiato e una critica con il pollice verso, con un risultato decisamente opaco. Sarebbe la depressione totale se davanti al ragazzo non si ripresentasse (perché già prima aveva tentato di dissuaderlo) il regista dei suoi successi televisivi con la sua nuova barcata di soldi: Andrew dovrà ora decidere se e come crescere, se affrontare il nuovo personaggio di giovane insegnante nell’America di oggi e continuare a reclamizzare le solite merendine tanto redditizie.

Odio Amleto, scritto da Paul Rudnick nel 1991, in scena all’Alfieri fino a domani ad inaugurare la stagione del “Fiore all’occhiello” di Torino Spettacoli, è una di quelle commedie molto lineari e prevedibili che proseguono a divertimento intermittente o che sparano tutti i loro colpi nella prima parte per sedersi a fiato corto nel seguito con buone zone di noia. Si scomoda Shakespeare, si camuffano brevi suoi brani, si va a finire negli insegnamenti e nella signorilità dell’uno (ah! i ringraziamenti, anche quelli, diceva un vecchio autore e regista teatrale scomparso, Aldo Trionfo, di cui nessuno si ricorda più) confrontati con il naïf che è ben ancorato nel cuore di Andrew, si contorna il tutto con figurine più riuscite altre decisamente no (la fidanzatina ventinovenne e vergine, avversa al sesso prematrimoniale, che prova a essere Ofelia), si condisce il tutto con un dialogo che dovrebbe sfavillare ma che a tratti s’ammoscia e non trova la strada del più schietto e allargato divertimento. E anche la regia di Alessandro Benvenuti la si vorrebbe più tagliente e cattiva, più corrosiva nel fronteggiare due mondi lontani anni luce e invece è lì più a inquadrare e a rincorrere il piccolo effetto del momento. Ugo Pagliai “porge” con eleganza le proprie battute e gigioneggia e sbevacchia meno – crediamo – di quanto non facesse il suo Barrymore, Paola Gassman trova, come uscendo da un altro testo, un angolo di ricordi e di danza con il reduce di una lontana avventura, Annalisa Favetti centra in pieno la sua agente e la sorpresona Guglielmo Favilla a tratti mette in ombra tutti quanti nell’irruenza senza tregua del suo regista imbonitore. E poi c’è lui, Gabriel Garko, che tutti aspettano al varco, un attore su cui persino Ronconi un giorno volle scommettere, assieme a Zeffirelli e Ozpetek. È il suo testo, quello che pare scritto apposta per lui, divetto televisivo prestato al palcoscenico, lo ha ammesso: e allora godiamocelo così come è, con i suoi inciampi, con la sua dizione rattoppata, con la sua s imperfetta, con i vuoti non riempiti quando ascolta i colleghi con le loro battute, con la sua unica espressione, con quei tentativi di salire il primo gradino della recitazione. L’importante è partecipare, diceva quel tale: tanto poi magari dietro l’angolo c’è un’altra bella (ed economicamente corroborante) serie di Canale Cinque ad aspettarlo, fatta di onori rispetti peccati e vergogne. Qui c’è già un bel coraggio ad autoironizzarsi, a scendere in pista.

 

Elio Rabbione

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