“É solo la fine del mondo”, capolavoro di Xavier Dolan (contro ogni regola natalizia)

Un ritorno a casa, dopo dodici anni il ritorno a casa del trentenne Louis, uomo di teatro già fine-mondo-filmcon una qualche fama alle spalle, omosessuale, dopo una fuga dalla provincia verso Parigi per cancellare una famiglia, un paese che gli sta stretto, il rammarico, i ricordi, il disprezzo e la violenza, il sussurrato e il non detto, le piccole infelicità di ogni giorno. Un ritorno a casa per dire della propria malattia, per annunciare, per far partecipi tutti, nella speranza di colmare il tempo passato e alla ricerca di quell’aiuto di cui ognuno ha bisogno. Sgomento, silenzioso, interrogativo, annientato. Arrivare e rincontrare il chiuso di una casa, una madre persa dietro i suoi fantasmi, dietro l’abito e il trucco, una sorella sboccata e chiacchierona che quasi non conosce, un fratello che nuota nella violenza verbale e fisica, che ha sempre saputo, che non sa costruire o che disprezza un dialogo, una cognata timida, appartata, chiusa in brevi dialoghi raggrumati, in sguardi persi dentro un passato come un presente che non le è facile decifrare. Le nevrosi di ognuno che vengono a galla, il ripetersi di domande, di perché cui non c’è risposta, delle cose che si sono lasciate e che si ritrovano, intatte. Perché rimanere se tutto ritorna come prima? Perché tentare di respirare se i piccoli uccellini, in quella casa, soffocano? Perché ogni cosa ritornerà cecovianamente come prima, i giorni somiglieranno ancora ai giorni. Un’altra fuga, quindi, per andare a morire chissà dove.

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Questo il tracciato di “É solo la fine del mondo” che il francese Jean-Luc Lagarce – nel proprio paese l’autore contemporaneo messo maggiormente in scena, accolto alla Comédie-Française – scrisse poco più che trentenne (era nato nel 1957, morì colpito dall’Aids nel ’95), con una buona dose di autobiografia. Da noi il testo fu rappresentato circa sette fa dal Piccolo milanese per la regia di Luca Ronconi, con un gruppo d’attori eccellenti, con vivo interesse. Nel portarlo oggi sullo schermo, il franco-canadese Xavier Dolan (da “J’ai tua ma mere” a “Tom à la ferme” a “Mommy”), gran geniaccio contemporaneo, aspro, irriverente, avverte appieno la vicinanza con il proprio mondo, con il personale modo di sentire, tra poesia e miserrima realtà, lo stesso sguardo nei confronti della famiglia o della figura materna, ne cattura in maniera claustrofobica le sensazioni, i dialoghi, le pieghe più anaffettive e vuote di ogni personaggio (ma scriveva pure, “impersonano delle solitudini, solitudini ricche di una fortissima tensione emotiva e affettiva verso gli altri”), giocando con la macchina da presa vicinissima, incollata, quasi soffocante, sui fine-mond-filmcorpi e sui visi, sui tanti primi piani, sui corpi che si toccano ma che rimangono lontanissimi, sugli silenziosi abbracci prolungati, sulla veemenza che interrompe un attimo di serenità tentata e ricercata. C’è uno straordinario lavoro di regia (non a caso a Cannes Dolan ha ricevuto il Gran Premio della Giuria), c’è il ricordo non soltanto di Cechov ma pure Strindberg e Albee, c’è il lavoro sugli attori, che rispondono a meraviglia. Innanzitutto Vincent Cassel che pare non essere mai stato così (violentemente) efficace, c’è la sottomessa Marion Cotillard, Léa Seydoux e Nathalie Baye, stralunata madre che continua a inseguire la vita e il figlio. C’è Gaspard Ulliel che è Louis, attonito, ma che necessariamente, perduto nel vuoto che lo circonda, gioca più d’ogni altro di sguardi e di parole non pronunciate, dinanzi a quegli squinternati brandelli familiari. Film che va assolutamente contro ogni legge natalizia, ma importante, assolutamente da vedere.

Elio Rabbione

 

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