Di quantità e qualità: Torino Comics, luci e ombre

Da un punto di vista economico, i biglietti venduti sono fondamentali per una fiera – soprattutto se non gode di pesanti interventi pubblici – ma la “qualità” dovrebbe avere una qualche importanza, a prescindere dalla “quantità”
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Si è conclusa ieri la ventiduesima edizione di Torino Comics, il festival torinese del fumetto. In queste ore, arrivano esultanze per il record di presenze: 55.000 visitatori in tre giorni, ben il 37% in più dell’anno precedente. Quindi, tutto bene? Sicuramente no. Se, da un lato, è innegabile la crescita quasi verticale degli ultimi anni, dall’altro pare impossibile non notare come la fiera viva in una sorta di “bolla”. La questione è annosa: se gli ingressi continuano ad aumentare, allora l’organizzazione sta lavorando bene? Sì e no. Da un punto di vista economico, i biglietti venduti sono fondamentali per una fiera – soprattutto se non gode di pesanti interventi pubblici – ma la “qualità” dovrebbe avere una qualche importanza, a prescindere dalla “quantità”. Ogni fiera di fumetto, per sopravvivere, deve aprire a contaminazioni di vario genere: dal cosplay al cinema, dai videogame al fenomeno “Youtuber”. Da Lucca a Napoli, da Milano a Roma, è prassi comune, e non c’è nulla di male. Però a Torino, da quando editori come Panini Comics hanno smesso di partecipare alla fiera, la parte “fumetto” ha una incidenza che tende allo zero; elenco espositori alla mano, Torino Comics è l’unica comics2fiera in cui le fumetterie della città non partecipano, e in cui il numero di editori presenti – contando solo gli editori, e non le associazioni culturali che fanno libri – non supera le cinque unità. Quindi, che senso ha che una fiera con la parola “Comics” nel proprio nome non abbia quasi più nulla di fumetto? Per non parlare degli ospiti – qualche nome interessante e altisonante, senza dubbio, ma perlopiù “sempre i soliti nomi”, che vengono a Torino Comics da anni –, e dell’aspetto culturale – in minima parte presente nelle edizioni passate – che quest’anno ha definitivamente abbandonato la manifestazione. Fiere come il Napoli Comicon, che si è imposta in Italia, e ha raggiunto una notorietà a livello internazionale, sono riuscite a trovare il giusto equilibrio tra “commerciale” e “culturale”: non è semplice raggiungere questo obiettivo, ma l’impressione è che a Torino non ci si provi nemmeno. Molto da dire ci sarebbe anche sulla disposizione degli spazi, senza alcuna attinenza merceologica: editori di fianco a spadai, fumetterie di fianco a stand di dolciumi, e così via… In questi tre giorni, l’Oval Lingotto era animato e frequentato da tantissime persone, ragazzi, bambini, adulti, ma sembrava il padiglione “non fumetti” di una fiera; come se, solo attraversando una “porta”, si riuscisse a raggiungere la parte “Comics”; una porta che, però, non c’era. Tirando le somme: se si guardano le presenze, la fiera è promossa a pieni voti; se si guarda all’aspetto culturale, invece, c’è del lavoro da fare. Ammesso che ci sia la volontà, ovviamente.

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