“Da Piffetti a Ladatte”, un percorso di meraviglie

Sono alcuni ritratti di personaggi di casa Savoia ad accogliere il visitatore nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto in occasione della mostra Da Piffetti a Ladatte. Dieci anni di acquisizioni curata dal presidente Giulio Ometto e da Luca Mana, conservatore del Museo: l’esposizione di un centinaio di pezzi tra gli oltre duecentocinquanta – i mobili, i dipinti, le miniature, gli orologi, gli argenti e altro ancora – giunti nel palazzo di via Po attraverso acquisti e vendite, donazioni, aste, scoperte, recuperi importanti, scommesse con se stessi nel desiderio di un ritorno a casa che può anche aver voluto dire una lotta impari con il Louvre ad un’asta di Sotheby, come è avvenuto per la terracotta Il Trionfo della Virtù dovuta a Francesco Ladatte, donata dal settecentesco financier parigino Ange-Laurent de La Live de Lully ad una consorte dai costumi più che leggeri e strappata l’anno scorso per una cifra di circa 180 mila euro. Il risultato, tutto questo, mai stabilizzato ma sempre in progredire (“con i miei collaboratori immagino un museo che possa cambiare continuamente aspetto, ben oltre la codificata raccolta museale”, è convinto Mana), dovuto alla volontà di presentare e di offrire al pubblico (“anche a quello giovane, di studi liceali, quello che – io ne sono convinto – in una crisi sociale ed economica, come è quella che stiamo vivendo, cerca appoggio nella bellezza e nel passato un punto di riferimento”) un patrimonio di arredi e di opere d’arte, inseguito non soltanto nel nostro paese ma nel mondo intero, una vasta collezione d’eccezione che rispecchi le ambientazioni e gli oggetti del XVIII e del XIX secolo, nell’impronta dell’accanita ricerca, dell’intelligenza delle scelte, nel riconoscimento costante di quello che amiamo definire come il “gusto Accorsi”.

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Una raccolta, un patrimonio prezioso, che non è esclusivamente la visione della bella opera d’arte esposta ma che ha alle spalle storie diverse di appartenenza, di affetti, di passioni e di culture che già a loro volta, ben al di là del rapporto economico, hanno tentato di mantenerne intatta la presenza e di cancellarne per molti casi la dispersione in un imprecisato altrove. Dei ritratti, si diceva, che iniziano il ricco percorso. Come quello di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, ad opera di Louis-Michel van Loo, appartenuto ad una importante dinastia di pittori di origini olandesi, al seguito del padre nei vari viaggi professionali, da Torino a Roma e a Parigi, non ancora trentenne al servizio della corte sabauda per lasciare le fattezze di principi e principesse, ancora ritrattista a Madrid e in maniera definitiva alla corte di Luigi XV. Il quadro offre tutta l’impertinenza della principessina che tra eleganti abiti e un piccolo bosco alla sue spalle stringe un verde pappagallo ansioso di recuperare la propria libertà. O ancora il ritratto di Maria Giuseppina di Savoia, contessa di Provenza dovuto a François-Hubert Drouais (anch’egli legato alle corti europee, ci ha tramandato la Pompadour e la du Barry), sguardo educato e rispettoso, rosa tra le mani e velluto rosato attorno al collo forse a cercare di nascondere quella poca pulizia di cui a corte si vociferava e che il sovrano Luigi XV stigmatizzava nelle lettere scritte al di lei consorte, affinché la regale dama si lavasse un po’ meglio almeno quando doveva frequentare pranzi e balli. Accanto a quel Trionfo della Virtù che dicevamo strappato al museo parigino, importanti ancora del Ladatte le Allegorie dell’Inverno e dell’Autunno (da Parigi nel 2014), mentre prezioso biscuit degli anni 1790/1800 proveniente dalla manifattura di Meissen è La venditrice di amorini, ricavato da un dipinto pompeiano (fu proprietà di Galeazzo Ciano), una coppia di giovani ragazze nell’intento di scegliere gli amori che una fattucchiera presenta loro, estraendoli da un leggero colonnato circolare.

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Da osservare con attenzione i tanti esempi delle miniature che affollano angoli delle sale, vedute e paesaggi di anonimo come di Moreau e di Giuseppe Bison, le nevi e gli alberi di Angelo Cignaroli, i personaggi eleganti e impreziositi che ci accompagnano nella prima metà dell’Ottocento, donne, giovani uomini, gruppi familiari, dovuti all’acclamato Jean-Baptiste Isabey, a Jacques Le Gros, a Hyacinthe Mercier. Come nelle teche esplodono da un mondo antico le altre porcellane di Meissen – esempi montati su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes -, candelieri a più luci (quello in bronzo dorato, su modello di Juste-Aurèle Meissonier, rischiava di restare all’estero, mentre adesso, dopo il suo acquisto a Parigi nel 2016, è tornato nuovamente a Torino), coppie di doppieri, bouquet con scene pastorali, centrotavola, vasi, pot-pourri; e ancora pendole (quella detta “all’elefante”, attribuita a Jean-Joseph de Saint-Germain, maître fondeur dal 1748), orologi da tavolo o da mensola (di manifattura francese, della metà del XVIII secolo, frutto di una donazione, un orologio in bronzo, osso e smalti), argenterie e candelieri – di fattura napoletana o francese -, la maiolica torinese con i cinque vasi dell’Ardizzone. Come s’impongono gli esempi di porcellana cinese, della dinastia Qing, primo quarto del XVIII secolo o quella denominata “famiglia rosa”, della dinastia Qing, tarda Era Qianlong, 1736-1795).

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Arrivando ai preziosi esempi di ebanisteria che si ammirano in mostra, davvero eccezionali le opere che ancora una volta dimostrano il genio del torinese Pietro Piffetti (1701 – 1777), nominato a trent’anni ebanista di corte, fino alla morte artefice, con preziose tarsie, dell’arredamento di corte, tra Palazzo Reale e Venaria, tra la Villa della Regina e Stupinigi. Il cofano-forte, 107 cm. di altezza, intarsiato di palissandro, pruno e avorio, risalente al 1750-1770 e acquistato da Sotheby’s nel 2013, appartenuto a Beatrice di Savoia all’interno della sua villa di Città del Messico; uno scrittoio databile al 1770 circa, un tavolo da centro o “buffetto” (del 1745 circa, Pietro Accorsi lo vendette all’inizio degli anni Quaranta a una signora della buona borghesia torinese, legata da una più che intima liaison al più importante industriale torinese: quando questi morì, se ne volle disfare e Accorsi lo riacquistò, secondo un patto tra i due, all’antico costo di vendita) e una coppia di armadi pensili, databili tra il 1735 e il 1740 (uno dei due in prestito alla Venaria per la prossima mostra sul Piffetti), legno tartaruga e avorio, due grandi medaglioni ad intarsio sulle ante, provenienti dalla casa di un’agiata coppia di coniugi torinesi e da questi conservati con affettuosa passione, un tempo segnalati come appartenenti alla scuola e oggi giudicati come opera propria del Maestro.

 

Elio Rabbione

 

 

Nelle foto: 

Manifattura di Meissen (modello di Christian Gottfried Jüchtzer), La Venditrice di Amorini, 1790-1800, biscuit

Louis-Michel van Loo (Tolone, 1707 – Parigi, 1771), Ritratto di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, 1773, olio su tela

Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Cofano-forte, 1750-1770, legno e avorio.

Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Coppia di armadi pensili, 1735-1740, legno, tartaruga e avorio

Manifattura francese, Bouquet con scena pastorale, 1747-1749, Porcellana di Meissen montata su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes

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