Da Novara a Teheran, il caso del ricercatore Djalali

FOCUS  di Filippo Re

Sta facendo il giro del mondo la notizia della condanna a morte di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano del Crimedim detenuto a Teheran con l’accusa di spionaggio per la cui liberazione si sta muovendo la comunità internazionale. La terribile notizia ha sconvolto anche il mondo universitario piemontese gettando nello sconforto in particolare i colleghi della Scuola di Medicina che hanno lavorato con lui tre anni a Novara 2012 al 2015. Per Ahmadreza Djalali, medico iraniano di 45 anni, finito nel carcere di Teheran alcuni mesi fa, si sta muovendo la Regione Piemonte. Il ricercatore iraniano per quattro anni ha lavorato e studiato all’Università del Piemonte Orientale, collaborando con il Crimedim, il Centro di ricerca in medicina di emergenza e delle catastrofi, con sede a Novara. Arrestato ad aprile a Teheran, dove si era recato per una conferenza, è stato incarcerato e ora è giunta la notizia della condanna a morte. La moglie, che vive a Stoccolma con i due figli, ha chiesto aiuto alle istituzioni italiane e alla stessa Università del Piemonte Orientale che ha lanciato una raccolta fondi per sostenere le spese legali della famiglia. Djalali è un serio professionista che per anni ha lavorato per la sanità piemontese, stimato e apprezzato da tutti i colleghi. La Regione Piemonte ha chiesto l’immediata scarcerazione del medico e ha sollecitato il governo italiano e l’Unione europea a intervenire presso le autorità iraniane. Perchè Djalali è finito in carcere? Le autorità iraniane lo accusano di essere una spia ma la sua unica colpa sarebbe quella di aver collaborato con ricercatori israeliani, americani, italiani e mediorientali per migliorare l’efficienza degli ospedali e i trattamenti sanitari soprattutto nei Paesi poveri o flagellati da guerre e carestie. Djalali è tenuto in isolamento nella famigerata prigione di Evin a Teheran, stracolma di oppositori e prigionieri politici. Rifiuta il cibo da diversi giorni e pare sia stato obbligato a firmare un’ammissione di colpevolezza. La notizia della condanna a morte del ricercatore riporta in primo piano l’uso eccessivo e indiscriminato della pena capitale nel Paese degli ayatollah. Secondo i più recenti dati diffusi da Amensty International, dall’inizio del 2017 l’Iran è, dopo la Cina, lo Stato che ha eseguito finora il maggior numero di condanne a morte, 355 solo fino a ottobre, davanti all’Arabia Saudita e al Pakistan. Un triste record, nonostante le promesse, non mantenute, di invertire la tendenza, del presidente “riformista” Rouhani.

Filippo Re

 

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