Ci hanno lasciato senza sorprese teatrali, è difficile affezionarsi al “dolce principe”

Valerio Binasco continua a incrociare sulla sua strada di uomo di teatro Amleto, poco più di vent’anni fa ne fu l’interprete – e si guadagnò un premio Ubu – con la regia di Carlo Cecchi, oggi ne agguanta le redini in veste di regista per riempire dei tormenti e dei sussulti e delle ansie del “dolce principe” l’ampio palcoscenico (troppo ampio?) delle Fonderie Limone. Ma in lui – nelle tre ore di spettacolo più intervallo, e allora ti accorgi che il lavoro di riduzione affidato alla consulenza drammaturgica di Fausto Paravidino avrebbe dovuto possibilmente utilizzare ben altre forbici – pare esserci un tanto di ritrosia, di tentennamenti (immedesimazione teatrale?), di insicurezze, già lasciano perplessi quelle note di regia riportate nel programma di sala, buttate giù sulla carta nell’estate di un anno fa (“scritte imprudentemente”, è l’esplicita confessione), che ancora non potevano lasciar spazio allo “spettacolo” ma che spingono soltanto il (futuro) regista a parlare “di me”, a gridare allo spettatore “una straordinaria paura di mezza età”.

Perché confrontarsi con Amleto pare non sia per nulla facile, districare tutti i rivoli in cui si dipana la trama di un’opera “diseguale”, zoppa nell’essere un capolavoro nei suoi primi tre atti e “alcune buffe rozzezze quando la trama deve dispiegarsi”, fare di quella figura di giovinezza e di regalità il perno efficace attorno al quale stringere i sentimenti e gli sguardi e le azioni di amici e nemici, svelarne appieno i paradossi e soprattutto quello che Binasco definisce “il disprezzo per la propria inconsistenza”. Tutt’al più allargare i confini fisici e considerare con più comodità questa tragedia come “un dramma familiare”, ma di quelli facili facili, con tanto di morto ammazzato, di corna, di vedovella che se la gode e di amante che s’è sistemato a vita, di rampollo che vuole rimettere un po’ di ordine nel trantran di famiglia. Parrebbe troppo facile. E poi Amleto si muove e riempie il palcoscenico, medita e sbraita contro questo o quello, odia la madre e lo zio usurpatore, getta accuse e blandisce, si rintana nella ricerca continua di una sua propria quanto precisa identità, tira di spada e duella, manda in convento la ragazzina e non sai bene se e quanto ne fosse davvero innamorato: ma poi tutto quanto sarà “silenzio”. Ecco, quel silenzio è lì come il vero pericolo della serata, al di là e oltre gli applausi destinati alla compagnia e al lavoro di tutti, tecnici compresi, ben allineati in proscenio (con il sospetto di applausi di cortesia o di amicizia alla prima), un silenzio che vada a coprire il lavoro di mesi e gli sforzi e i risultati che qua e là si vedono ma che non riescono a convincermi appieno. In altre parole, in quei 180’ Binasco riesce ben raramente, in una eccessiva parsimonia scenografica che finisce con l’essere vicinissima al vuoto più disturbante, con quelle alte pareti grigie del teatro a sostituirsi ad una reinvenzione accettabile di Elsinore, a dare forma ad un guizzo, una trovata, un eccesso teatrale che ti sottragga ad un percorso troppo lineare. Ed alla fine sempre troppo eguale a se stesso. Certo la frammentazione della seconda parte non aiuta, anche Shakespeare come Omero di tanto in tanto s’è addormentato. Quando, come nella scena dei becchini, ti dà la staffilata inondando dall’alto di terriccio le tombe, è questione di un attimo, anche quell’atto s’interrompe e si chiude immediatamente su un chiacchiericcio senza convinzione che spegne l’idea. Molto allora si risolve nell’ascolto della traduzione di Cesare Garboli, molto traspare dai giochi di luce dovuti a Nicolas Bovey che attraversano gli spazi bui, di già visto spesso e altrove sanno al contrario i costumi di Michela Pagano, divise, pastrani tipo reduci dalle fredde distese russe, giacche e pantaloni di sapore impiegatizio.

A chi assistesse oggi per la prima volta all’Amleto, risulterebbe assai strana e difficile da decifrare quell’aria di leggenda che sta attorno al testo e a certe passate edizioni, rifiuterebbe anche la performance di Laurence Olivier come già faceva il giovane Holden di Salinger. Cinematograficamente, si direbbe che (anche) molti degli attori non bucano lo schermo, fanno il loro dovere, qualcuno con accanimento, ma senza arrivare giù in platea. Gabriele Portoghese che ha il ruolo del titolo, grande responsabilità, ha attorno a sé troppo “disordine” per poter dire una parola nuova sul personaggio, il Claudio di Michele Di Mauro gioca sull’ambiguità e sul tronfio guadagnandosi attenzione, il Rosencrantz e il Guildenstern di Michele Schiano di Cola e Vittorio Camarota sono arrivati chissà perché da Napoli, la regina di Mariangela Granelli butta fuori rabbia e fantasmi perdendosi in rabbiose volute di fumo, la Ofelia di Giulia Mazzarino trova qualche sincerità d’accenti soltanto nel finale con la follia di suicida. Chi si ritaglia appieno uno spazio davvero convincente è il Polonio di Nicola Pannelli, untuoso quanto basta, perfetto impiegato di corte, pieno di timori ma gran simpaticone: guardiamo lui mentre dovremmo per tutta la serata cercare di affezionarci a quel “triste individuo svitato”. Ma non ci riusciamo.
 
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Laila Pozzo
 

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