Caso Kurdistan, un altro referendum e le frontiere tremano

FOCUS  di Filippo Re

Traballano di nuovo le frontiere del Medio Oriente e rischiano di saltare per l’ennesima volta a causa di un referendum. Ora che i curdi iracheni hanno detto “si” in massa all’indipendenza della loro regione il 25 settembre scorso con un referendum consultivo ma dotato di una forte valenza politica, si aprirà una nuova crisi nella regione? Scoppierà un altro conflitto armato o le armi taceranno per lasciare spazio alla diplomazia? Le potenze regionali, fermamente contrarie alla secessione, hanno sigillato le frontiere, chiuso gli aeroporti e ammassato truppe ai confini minacciando un intervento armato. Il Kurdistan è isolato dal mondo o quasi. I curdi sono abituati a essere imbrogliati e raggirati. Cent’anni fa, il sogno di far rivivere il “Grande Kurdistan” storico sulle ceneri dell’Impero ottomano fu cancellato con un tratto di penna a Losanna nel 1923. Forse non accadrà nulla di grave ma ben sappiamo che ogni scintilla in Medio Oriente rischia di incendiare interi territori. Un referendum fa sempre paura per i contraccolpi che potrebbe provocare. Nella pacifica Europa il voto catalano ha provocato un piccolo incendio tra Madrid e Barcellona, in Medio Oriente divamperebbe subito una guerra. E c’è l’annuncio sinistro del “fantasma” Al Baghdadi, morto e risorto più volte nei deserti mediorientali, che in un recente e misterioso audio parla di guerra inevitabile tra i turchi e i curdi proprio mentre la tensione tra Ankara ed Erbil sale alle stelle. Massoud Barzani, presidente del Kurdistan autonomo, ha ottenuto facilmente ciò che voleva, un plebiscito a favore dell’indipendenza del Kurdistan che in realtà non significa separazione dal governo centrale di Baghdad ma piuttosto un passo avanti verso un’autonomia sempre più ampia della regione curda.

 

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Una chiara vittoria che lo rafforza al vertice politico dell’entità curda ma che lo costringe ora a trovare un “modus vivendi” con i Paesi confinanti che, schierati ai confini, minacciano ferro e fuoco contro la sua regione. E non scherzano perchè tutti paventano che il contagio secessionista si estenda dal Kurdistan alle loro terre dove vivono milioni di curdi. Il più rabbioso è, come sempre, Erdogan che vede già la febbre indipendentista diffondersi nelle aree curde, nel sud est della Turchia. “Se chiudiamo i rubinetti, per loro è finita”, minaccia il sultano, riferendosi alla valvola dell’oleodotto, vitale per l’economia curda, che porta il petrolio da Kirkuk al terminale turco nel Mediterraneo. Erdogan, che non riconosce neppure l’esistenza del Kurdistan autonomo, chiamandolo governo dell’Iraq del nord, ha già portato al confine soldati e armamenti, minacciando di invadere la regione in qualsiasi momento. In realtà il rubinetto è ancora aperto, nonostante le promesse di Erdogan di “affamare i curdi” definiti “ i turchi delle montagne” così come il valico di frontiera dove si sono formate lunghe di file di camion turchi carichi di greggio prelevato dai pozzi curdi. L’Iran, che ha vietato alle sue società di recarsi nel Kurdistan ad acquistare petrolio, teme le ambizioni secessioniste dei curdi iraniani (7-8 milioni) e vede con preoccupazione l’alleanza, anche militare, tra Erbil e gli israeliani, gli unici ad aver appoggiato il referendum tra i Paesi della regione. Mentre il premier iracheno al-Abadi esclude qualsiasi trattativa con Barzani ritenendo “incostituzionale” il referendum e ribadisce che le leggi irachene saranno applicate in tutto il Kurdistan, gli sciiti iracheni accompagnano le loro feste religiose con canti e slogan contro i “cospiratori separatisti” del nord. Ma l’entusiasmo per l’indipendenza si è esteso a tutte le regioni curde del Medio Oriente. In diverse città iraniane molta gente è scesa nelle strade per festeggiare il voto e il governo di Damasco ha fatto sapere che discuterà per la prima volta di autonomia con i curdi siriani (circa il 10% della popolazione) che dall’inizio della guerra amministrano i territori che controllano ma nessun referendum stile Erbil sarà consentito dal regime di Bashar al Assad. Le manovre dei curdi siriani (almeno 2 milioni) verso la conquista di una larga autonomia sono fonte di preccupazione anche per gli stessi turchi che stanno ultimando la costruzione di un muro al confine con la Siria. Si tratta di una barriera di blocchi di cemento lunga 700 chilometri e già realizzata per seicento chilometri.

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Ankara non vuole che i curdi siriani, vicini al Pkk curdo che lotta in Turchia contro i militari di Ankara, puntino, come i loro fratelli iracheni, alla nascita di uno Stato curdo ai suoi confini meridionali. C’è poi il nodo di Kirkuk, città contesa e ricchissima di petrolio, controllata in parte da Baghdad e in parte dai combattenti peshmerga, dove i curdi sono la maggioranza e vivono a fianco di arabi sunniti e turkmeni che non sono d’accordo con i piani di Barzani e non vogliono Kirkuk nel Kurdistan. Il 25 settembre si è votato anche qui nonostante la città non faccia parte della regione autonoma e il governatore locale è stato costretto a imporre il coprifuoco dopo i violenti scontri scoppiati tra curdi e turkmeni. Kirkuk resterà nel Kurdistan, afferma invece il leader dei separatisti curdi, ma non tutti ne sono convinti. Forse non soffieranno venti di guerra e non scoppierà un altro conflitto in un’area già segnata da troppe tragedie ma il futuro politico ed economico del Kurdistan resta incerto. Passata l’euforia, per Barzani arriva il momento più difficile, quello di gestire il dopo referendum e fare i conti anche con le altre formazioni curde che non lo amano. Per sopravvivere il Kurdistan dovrà continuare a vendere il suo petrolio e dovrà trattare proprio con i Paesi che oggi lo minacciano. Timori e sospetti crescono anche nelle comunità cristiane. Sono decine di migliaia i cristiani rifugiati nel Kurdistan dopo l’arrivo dell’Isis in Iraq. In questa fase delicata la Chiesa caldea esprime preoccupazione per il futuro e invita tutte le parti interessate a un “dialogo coraggioso”. Per ottenere l’appoggio delle minoranze le autorità curde hanno presentato, alla vigilia del referendum, un documento politico in cui si assicura la tutela dei diritti di tutte le minoranze etniche e religiose e si garantisce democrazia e decentramento amministrativo nelle zone in cui abitano cristiani caldei, assiri, siri, armeni, turkmeni e yazidi. Tuttavia la partita intorno alla Piana di Ninive, l’area dove da secoli vivono le comunità cristiane, è ancora tutta da giocare e c’è chi non vede l’ora di mettere le mani sopra villaggi e città dell’area in cui stanno tornando i primi gruppi di cristiani cacciati dall’Isis alcuni anni fa.

( “La Voce e Il Tempo” )

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