Carlo Levi e la Basilicata: dal confino a Italia ‘61

Fino al 28 febbraio 2019

Ad accogliere il visitatore negli ampi spazi espositivi della “Fondazione Giorgio Amendola – Associazione Lucana in Piemonte Carlo Levi” di Torino, c’è un vigoroso “Autoritratto” – uno dei tanti realizzati dal pittore in una carriera artistica durata poco meno di cinquant’anni, dal ’26 al ’75 in cui Carlo Levi (Torino, 1902– Roma, 1975) fissa la propria immagine, con tanto di pennello e tavolozza fra le dita, improvvisando ampie e vigorose giravolte di colore, tese a fermare nell’essenzialità del gesto“quella faccia fulva di leone sazio dopo il pasto”, come amava simpaticamente descriverlo l’amico Sion Segre Amar, scrittore torinese, anche lui di origini ebraiche, scampato all’Olocausto come rifugiato, fino al termine del secondo conflitto mondiale, in Israele. L’opera è un olio su tavola del 27 ottobre 1935, realizzata da Levi in Basilicata – Lucania, in “lingua” fascista – nei primi mesi (saranno complessivamente nove, interrotti nell’aprile del ’36 con la grazia ottenuta per la conquista etiopica) di condanna al confino per sospetta attività antiregime, prima a Grassano, la sua “piccola Gerusalemme” e poi ad Aliano, modesto centro in provincia di Matera, teatro per questo indomito “torinese del Sud”, di un’ esperienza fortemente toccante sul piano umano, da cui nascerà, a metà degli anni ’40, il suo“Cristo si è fermato a Eboli”, appassionato racconto e affascinante diario intimo in cui “Aliano” diventa “Gagliano”, imitando la pronuncia locale. E in cui troviamo tutto quel mondo “serrato nel dolore e negli usi – scriveva lo stesso Levi – negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente”, che si fa soggetto tragico, arcaico e magico in quelle trentanove opere (in maggior parte oli su tela, ma anche disegni e bozzetti preparatori) assemblate, fino al 28 febbraio del prossimo anno, nei locali della torinese “Fondazione” di via Tollegno, d’intesa con la “Fondazione Carlo Levi” di Roma e il “Polo Museale della Basilicata”. Il periodo preso in considerazione è l’arco di un ventennio compreso fra i mesi vissuti da confinato politico ad Aliano (alle spalle gli anni torinesi di Gobetti e la scuola di Casorati, l’Ecole Parisienne e i Fauves e Modigliani, così come il fervore europeista dei “Sei”) e i frequenti successivi ritorni, dal dopoguerra in poi, in quella terra del Sud, in quei luoghi – e accanto a quella gente dai volti tanto più dignitosi quanto più imbarbariti dalla miseria – che il pittore aveva così profondamente scolpito nel cuore e nella memoria (anche come politico eletto per due volte negli Anni Sessanta al Senato della Repubblica) tanto da desiderare di farne il luogo della sua sepoltura. E, ancora oggi, nel cimitero di Aliano “la tomba di Carlo Levi – scrive Giuseppe Lupo è un pavimento di mattoni rossi, nuda nella sua disadorna verità”, protetta da un muretto di cinta, che s’affaccia su quella “Fossa del Bersagliere”, strapiombo giallo e calcareo, oltre cui degrada la valle dell’Agri, e di cui abbiamo in mostra un olio del marzo ’36 a documentare la durezza di un paesaggio fatto di sparsi carrubi e geometrici calanchi, di verdi, di blu, di gialli e grigi, che paiono, con forza sempre più espressionista, cercare rifugio nello spazio minimo dell’azzurro del cielo. Paesaggi, quello di “Aliano e la luna” su tutti, e poi i volti. Tanti. Indimenticabili. Pensosi. Rassegnati. Ma vivi. Come nel delizioso sguardo nero di “Tonino” o in quelli di “Antonio, Peppino e il cane Barone” entrambi del ’35. Negli occhi, l’idea di un possibile futuro riscatto. Pur con gli scialli neri, i capelli scarmigliati de “La figlia della Strega” del ’36 e il dolore fatto carne viva per il funebre “Lamento per Rocco Scotellaro”(1953 –’54), il sindaco poeta di Tricarico, dai capelli rossi e “dal viso lentigginoso” – morto giovanissimo a trent’anni nel ’53 – cantore de “L’uva puttanella” (oltreché autore di poesie di intenso vigore), con cui Levi si legò di fraterna amicizia (dedicandogli vari ritratti) e che volle protagonista “ideale” del suo epico telero “Lucania ‘61”, cinque enormi pannelli in cui c’è tutto “il dolore antico” e il “coraggio di esistere” del suo Sud e che il pittore dipinse su invito di Mario Soldati, per rappresentare la Basilicata alla grande mostra organizzata a Torino per il primo Centenario dell’Unità d’Italia; opera oggi custodita in Palazzo Lanfranchi a Matera e di cui la “Fondazione Amendola” possiede una ragguardevole riproduzione fotografica. Che , fatta eccezione per un possente “Ritratto di Giorgio Amendola” del ’66 – posto accanto alla scultura in bronzo realizzata da Gianni Busso per i cent’anni dalla nascita dello statista – rappresenta il punto d’arrivo di una mostra che ancora una volta rilegge a fondo lo stretto legame dell’artista torinese con la terra lucana. “Un legame di dare e avere – scrive bene Marta Ragozzino, direttrice del Polo Museale della Basilicata – che ha contribuito, da un lato, ad innescare la miccia delle trasformazioni che hanno portato alla Basilicata moderna (ndr: Matera, Patrimonio dell’Unesco 1993 e Capitale Europea della Cultura 2019) e, dall’altro, ai cambiamenti personali di uno dei più grandi intellettuali del secolo breve”.

Gianni Milani

“Carlo Levi e la Basilicata: dal confino a Italia ‘61”

Fondazione Giorgio Amendola, via Tollegno 52, Torino; tel. 011/2482970

Fino al 28 febbraio 2019 – Orari: lun. – ven. 10-12,30/ 15,30-19; sab. 10-12,30

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 Nelle foto

– “Autoritratto”, olio su tela, 1935
– “Aliano e la luna”, olio su tela, 1935
– “Tonino o ragazzo lucano”, olio su tela, 1935
– “Antonio, Peppino e il cane Barone”, olio su tela, 1935
– “Lamento per Rocco Scotellaro”, olio su tela, 1953-’54
– “Ritratto di Rocco Scotellaro”, olio su tela, 1952
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