Brandirali, la conversione di un comunista

L’interesse per la politica e il desiderio di servire la propria gente, l’ideale comunista e la passione per l’umano, la sete di uguaglianza e la contestazione sessantottina, gli incarichi di partito e poi la presa di distanza dall’ideologia, l’incontro con don Giussani e la conversione, il lavoro di elettricista e quello attuale di educatore per il recupero dei tossicodipendenti: sono innumerevoli le sfaccettature della vita di Aldo Brandirali, raccontata sul palco del Salone Tartara a Casale Monferrato la sera del 12 dicembre durante l’incontro promosso dal Centro culturale Alberto Gai e presentato da Fiorenzo Pivetta (consigliere comunale di minoranza a Casale), sui cinquant’anni di ricorrenza del Sessantotto. In sala tra gli ascoltatori c’era anche il past sindaco di Casale Monferrato, Giorgio Demezzi, oggi consigliere di opposizione e fresco di annuncio di un suo ‘ritorno in campo’ come candidato sindaco alla guida di una lista civica. Cresciuto nelle file del PCI e divenuto nel ‘68 leader dell’Unione dei Comunisti Italiani, Brandirali prese parte e guidò la contestazione carico dell’entusiasmo di chi, in quegli anni in cui la generazione adulta sembrava accontentarsi del benessere economico raggiunto, era alla continua ricerca di un significato. Come altri giovani dell’epoca rifiutava che lo scopo della vita fosse l’arricchimento, cercava approfondimenti culturali, tentò l’esperienza della “comune” vivendo insieme ad altri undici ragazzi e condividendo tutto, dagli stipendi ai turni per le pulizie e per la cucina, si oppose al potere nella speranza che a tutti fosse garantita una pari dignità. Nelle manifestazioni il suo nome veniva scandito dalla folla insieme a quello di Stalin e di Mao, ma già serpeggiava nell’animo di Brandirali un’insoddisfazione: si rendeva conto che la messa in pratica dell’ideale comunista non era semplice. «Lo vedevo già nell’esperimento della “comune”: senza la guida di un’autorità, basandosi solo sullo sforzo etico di chi vi partecipava, dopo un po’ di tempo la cosa non funzionava, a partire banalmente dai turni delle pulizie non rispettati. E man mano che prendevo parte alla vita di partito, vedevo sempre più una frattura tra la teoria marxista-leninista su cui mi basavo e il mio desiderio di essere responsabile della mia gente, di lavorare trovando un significato in quello che si faceva, di vivere la politica come un servizio.» Quando tra il ’75 e il ’77 decise di mollare tutto, sia per il contrasto che viveva sia perché stava prendendo il sopravvento la frangia violenta che spingeva per la lotta armata, visse un profondo senso di fallimento, che però lo spinse ad analizzare ancora di più la struttura umana. Complice la moglie, esperta d’arte che mostrandogli le opere frutto del genio umano lo aiutò a superare la tendenza alla sintesi schematica a cui l’ideologia l’aveva abituato, intuì che il marxismo non capisce la realtà della persona, la complessità dell’uomo e iniziò a studiare antropologia.

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Negli anni ’80, con gli ultimi dieci compagni che gli erano rimasti fedeli, chiese un incontro a don Giussani, sacerdote a cui si interessò perché, da come ne aveva sentito parlare, viveva la fede nell’esperienza concreta del quotidiano. L’entusiasmo con cui Giussani accettò l’invito e il modo in cui riconobbe e apprezzò la passione politica che li muoveva, ricucì nell’animo di Brandirali quella frattura generazionale che lo aveva spinto alla contestazione del ’68: «Per la prima volta avevo trovato un adulto che cercava di dare un senso alle cose». Per dieci anni seguì Giussani senza convertirsi, poi un giorno, di fronte alla risposta puntuale della Provvidenza a una particolare necessità di un gruppo di carcerati che Brandirali aiutava, non poté fare a meno di inginocchiarsi in chiesa: «Capii che davvero Dio si era fatto uomo e, inginocchiato, riconobbi un popolo nella gente che vedevo in chiesa e che fino a poco prima criticavo. Proprio io che negli anni avevo perso la concezione di che cos’era un popolo. Io che nel ’68 mi sono sentito sconfitto, adesso che sono di Cristo mi dico vittorioso e mi lascio plasmare dall’esperienza, non ho più le mie idee e le mie teorie, nelle circostanze di ogni giorno riconosco una continua chiamata. La mia persona si è riunificata: avevo il problema di non essere dualista, ora posso unire cuore e ragione». Sollecitato dalle domande a un giudizio sul presente della politica italiana e sui giovani d’oggi, Brandirali afferma che «la politica è la capacità di tenere insieme la complessità, è la continua ricerca delle ragioni anche dell’altro per generare un popolo, una nazione, mentre oggi c’è la tendenza a cercare il consenso più che il bene comune. Mentre il problema dei giovani di oggi sono i genitori hanno cercato di tramandare una posizione senza essere dei testimoni, senza raccontare la propria esperienza. E i giovani, che oggi più che mai sono ricchi di informazioni, hanno a loro volta bisogno di fare esperienza, anche esperienza comunitaria, riconoscendo in ogni circostanza l’emergere di una vocazione».  L’iniziativa del Circolo Alberto Gai è stata sicuramente apprezzabile perché ha consentito una rievocazione culturale di un periodo che ormai si tende a mettere nel dimenticatoio ed il cammino di una persona che non è mai scesa a compromessi nella sua vita ma ha sempre fatto scelte nette e precise.

Massimo Iaretti

 

 

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