“Assassinio sul Nilo”: libertà teatrali, ma la tensione rimane la stessa

Torino Spettacoli vanta, come ognuno ben sa, non trascurabili successi per le proprie incursioni nel mondo letterario di Agatha Christie, le stagioni dove immancabilmente trovano spazio le tappe di “Trappola per topi” e “La tela del ragno” ne sono la testimonianza. Sale piene, pubblico più che soddisfatto e per questo capace di ritornare sul luogo del delitto stagione dopo stagione, decisione a furor di popolo di prolungare le repliche, e sino ad una data insuperabile per il semplice fatto che già la programmazione di altri titoli è d’obbligo.

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Oggi s’è varato “Assassinio sul Nilo” (repliche prolungate all’Erba sino al 22 gennaio per le ragioni di cui sopra), altro grande successo della britannica scrittrice, signora in giallo per eccellenza, dato alle stampe nel 1946 e approdato al cinema nel ’78 per la regia di John Guillermin ed un cast di stelle hollywoodiane in gran forma. E con la benedetta sceneggiatura di Anthony Shaffer, raffinato scrittore che rasentò l’Oscar con “Gli insospettabili” e che nel mondo di pistolettate, soffocamenti e pugnalate se l’è sempre cavata un gran bene, leggi per tutti l’hitchckockiano “Frenzy”, “Delitto sotto il sole” e l’“Assassino sull’Oriente Express” (quest’ultimo titolo non accreditato, ma era pur anche farina del suo sacco).

Scegliendo tra i titoli della Christie, Shaffer si prese altresì non poche libertà, inserendo particolari nuovi, eliminando personaggi e vicende legate a costoro, attribuendo a qualcuno quel che l’autrice affidava ad altri. Libertà sacrosante, anche se niente e nessuno pensava di eliminare il perno della narrazione e dell’indagine, il baffuto Hercule Poirot, la testa d’uovo della letteratura, il sofisticato ragionatore per eccellenza, l’anima insostituibile. La trasposizione che oggi vediamo – e applaudiamo come tutto il pubblico che dallo scorso dicembre ha continuato ad affollare la sala – sul palcoscenico s’è presa anche questa libertà, affidando a Piero Nuti, pure in veste di regista, di tirare le fila dell’intero plot nelle vesti del non identificato canonico Pennefather, non esente pure lui da qualche leggera ombra. Non è quindi il caso di gridare al tradimento, semmai di sottolineare una riscrittura che, sulle linee limpide dell’originale, inquadra con particolare ricchezza i vari personaggi, che analizza e srotola situazioni, che sfrangia la storia di tipi e di vittime, che corre verso il drammatico finale con concreta sicurezza. Ogni pedina della vicenda, dei due perfetti calcolatori che per raggiungere il loro scopo non badano a qualsivoglia ostacolo, con buona pace dei loro compagni di viaggio, è ben risistemata al proprio posto, con eccellente tensione, tenendo sempre ben sveglia l’attenzione dello spettatore, e questo è quel che più conta. Nella scena fissa firmata da Gian Mesturino, ricordiamo le prove di Luciano Caratto, Micol Damilano e Barbara Cinquatti con il ritrattino dell’anziana zitella tutta pretese, la signorina ffoliot-ffoulkes (il minuscolo ci spiega lei stessa è d’obbligo), disegnato con gusto e misura da una frizzantissima Patrizia Pozzi.

 

Elio Rabbione

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