Arpino, il profilo di un intellettuale “intero”

di Pier Franco Quaglieni

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È difficile assumere il necessario distacco critico quando si scrive di un amico. Meno che mai quando si scrive di un amico rapito dalla morte ad appena sessant’anni. Soprattutto diventa impossibile quando, scrivendo, si ripensa alle serate passate con lui, al fuoco d’artificio di battute, sempre stupendamente velenose e piene di scintillante intelligenza, che rendevano la sua compagnia qualcosa di unico. Mi riferisco a Giovanni Arpino, scrittore, giornalista, autentico uomo di cultura nel senso più ampio del termine. Quando, nel cuore della notte, seppi dell’aggravamento improvviso del suo male, ne rimasi sconvolto. Pochi giorni dopo, ci dovevamo vedere. Per anni non ci eravamo frequentati: io sono allergico allo sport, soprattutto al calcio, ed Arpino è stato giornalista sportivo di rara competenza. Ma i suoi libri li ho sempre letti, tutti e sempre d’un fiato. Il suo libro più bello è forse La suora giovane, ambientato in una Torino invernale in cui sboccia un amore casto e straordinariamente poetico tra uno scapolo dalla vita grigia e monotona e una suora giovane ,bella e spregiudicata. Sono occhiate furtive alla fermata di un tram, sono speranze senza domani, che danno però un senso alla quotidianità noiosa di una città gelida non solo per il suo clima. Arpino era uno di noi: aveva cominciato a scrivere sul “Mondo” giovanissimo (mando’ un articolo a Pannunzio quand’era militare a Bra e ricevette una cartolina postale del direttore che gli annunciava la pubblicazione la settimana dopo: Pannunzio fu uno straordinario scopritore di talenti sconosciuti .

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Giovanni è stato un  coerentemente fedele, nella sostanza, a quegli ideali di laicità, di indipendenza e di cultura vera che restano la testimonianza più importante di quell’irripetibile esperienza politica e culturale. Abbandonò Pannunzio, ma non i suoi ideali, per un giornale più diffuso e abbastanza lontano dal “Mondo  come ha ricordato Giovanni Tesio. Fu  però una parentesi breve. Era poi entrato a “La Stampa” con Alberto Ronchey (Giulio De Benedetti, il vecchio direttore, lo riteneva  troppo «letterato ed artista» per fare il giornalista)  , passando successivamente al “Giornale” di Indro Montanelli. Nel conformismo postsessantottino in cui la cultura veniva confusa con i volantini demagogici e con le scritte sui muri, Arpino si era ribellato, passando con Montanelli, quasi per reazione. Commise in buona fede  un  grave errore , presentando a Montanelli un giovane torinese che sarebbe diventato il diffamatore seriale per antonomasia, ma Giovanni non poteva immaginare il futuro . Vedendo com’era amministrata Torino durante il decennio “rosso” da alcuni assessori, Arpino fu uno dei pochi che ruppe il plumbeo conformismo di quegli anni. Sparò a zero su tutto e su tutti, senza pietà e senza calcolate prudenze. Ricordo un memorabile dibattito che facemmo insieme sulla devastante «rivoluzione tranviaria» dell’82: uno scrittore del suo calibro non esitò un attimo a scendere in campo al mio fianco  contro una «riforma» (si fa per dire) che solo pochi militanti potevano accogliere ,senza alzare la voce. Ed allora – ricordo – usò i toni aspri della polemica più vigorosa, quella vis che il linguaggio disossato ed esangue dei politici non conosce più. Giancarlo Quagliotti tanti anni dopo riconobbe con me quell’errore che portò ai maxi tram, bloccando i lavori della Metropolitana sotterranea.

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Arpino è stato un intellettuale intero che ha saputo coniugare insieme letteratura ed impegno civile, senza mai lasciarsi ingabbiare nel conformismo dei partiti. Egli fu anche un uomo che sapeva amare la vita, anche se alcune angosce che lo tormentavano, gli consentirono raramente di goderne appieno. Definì Torino una città fra Gozzano e il metallo (immagino dell’industria); ebbene, proprio uomini come lui ci hanno dimostrato come, in mezzo a nostalgie crepuscolari o alla cosiddetta «monocultura» industriale, potessero esistere anche uomini che hanno dato dignità intellettuale ad una città ambigua e monotona, ribelle e conformista nello stesso tempo. Nato a Pola, sentiva in modo particolare l’esodo giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe. Fu tra i primi a parlarne molto prima che gli storici, se escludiamo Gianni Oliva, affrontassero quel tema scottante sul quale bisognava svicolare. Anche qui andando, come sempre, controcorrente. E’ morto troppo presto e solo l’amico Bruno  Quaranta gli e ‘ stato fedele. Massimo Romano ha scritto su di lui delle belle pagine. Quando inaugurammo via Arpino ,la vedova Caterina mi volle con lei. Il sindaco Maria Magnani Noya non andò ai suoi funerali e dopo qualche giorno lo commemorai io al Centro Pannunzio, ricordando anche il suo inseparabile gatto siamese. Fui io ad inaugurare la  bella biblioteca che il sindaco Erminia Zanella volle dedicargli a Gambasca. Un segno che Giovanni non è stato dimenticato.

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