A Sarajevo il 28 giugno

 Iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso

sarajevo ecidio 2

Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divise in due la storia del ventesimo secolo: l’at­tentato in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e sua moglie, Sofia Chotek von Chotkowa. Dopo quel giorno, il 28 giugno, nulla fu come prima e, scardinata in un battibaleno la  belle époque – dilapidandone il patrimonio culturale ed artistico che aveva fatto grande l’Europa – iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso. Gilberto Forti, giornalista e traduttore dall’inglese, tedesco e svedese oltre che dei grandi autori della tradizione mitteleuropea, nel suo stupendo “A Sarajevo il 28 giugno” ha guardato dentro quella giornata, estraendone undici «storie in versi», poesie narrative in endecasillabi di straordinaria sobrietà. A parlare sono, di volta in volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà di quella giornata-spartiacque. Leggendole vengono incontro sarajevo fortivoci e figure diverse, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che “si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse”, all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte a Gavrilo Princìp, l’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono come d’incanto tutt’attorno ad un fatto centrale: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi si può vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Una catena infinita dei casi, di  volontà inconsce, di consapevoli disegni portano a quei colpi di pistola quasi fossero una calamita,  cambiando il corso della storia, all’incrocio del ponte Latino di Sarajevo. L’unica figura che nel libro non parla è la vittima principale, Franz Ferdinand, ma non occorre che lo faccia: sono gli altri  che parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Gilberto Forti riuscì a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia ( il libro uscì nella Piccola Biblioteca Adelphi nel 1984 ): l’arciduca cacciatore seriale (più di trecentomila animali furono uccisi da lui ), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico ( Sofia era di rango sociale inferiore e questo impediva il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito), uomo con difetti e pregi. sarajevo eccidioL’arciduca finì dissanguato sotto i colpi del giovane Gavrilo anche perché nessuno seppe aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità. Un eccesso di vanità e di “etichetta” che gli fu fatale. Ripercorrendo e scandagliando  gli eventi della giornata che fece da detonatore alla Prima guerra mondiale, Gilberto Forti utilizza la figura dell’arciduca erede al trono come metafora della complessità e delle fragilità dell’Impero alla vigilia del conflitto che lo portò alla dissoluzione. Chi l’ha definita, acutamente, una sorta di Spoon River in terra balcanica ha colpito nel segno.  Nelle parole che Forti fa pronunciare al  sergente Koppenstatter, si trova una delle metafore più intense  del libro: “Francesco Ferdinando se ne va, e con lui se ne va la disciplina, la stessa disciplina che l’ha ucciso, la disciplina delle cuciture che tenevano assieme il vecchio impero”.

Marco Travaglini

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