A Luino, sulle tracce di Piero Chiara e del “signor Brovelli”

Quinto, da tempo, chiede insistentemente di accompagnarlo fino a Luino, sulla sponda lombarda del lago Maggiore per vedere “ i posti di  Piero Chiara”. Dopo aver vestito i panni di attore per caso e rapinatore per finta sul set del film La Banca di Monate, interamente girato a Omegna, sul lago d’Orta, l’infatuazione per lo scrittore della “sponda magra” del Verbano è diventata quasi un’ossessione. Qualche settimana fa, seduto ad un tavolino del bar in piazza Salera, un conoscente stava parlando al telefono con un amico che, da quanto si è poi saputo, comunicava dal molo di Ronco di Pella. Il primo, riferendosi all’acqua del lago, che riflette il mutare del tempo, chiedeva come l’altro la vedesse ( era chiara? era scura? prometteva brutto tempo? poteva azzardarsi a mettere in acqua la sua barchetta? ) quando il buon Quinto, intromettendosi, esclamò: “ Più che l’acqua, annusa il vento. Allarga bene le narici e sentirai se dalle Quarne scende l’aria brusca o dal Mottarone il mergozzolo”. Quinto era così, di buon carattere ma piuttosto invadente. Non per maleducazione o curiosità degli affari altrui. Anzi, era del tutto convinto di poter essere utile, di dare consigli. E come poteva farlo se non usando quel sesto senso che pensava di aver scoperto leggendo le storie di lago dell’esimio luinese? Così, per evitare il protrarsi di quel tormento ( “dai, andiamo? Mi porti, eh? Si va e si viene in giornata..”) e per farlo contento, ho ceduto le armi: sabato si va a Luino! Siamo partiti di buon ora e Quinto, che solitamente non sta zitto nemmeno se lo imbavagli, fino al ponte sul Ticino rimase più silenzioso di una mummia. Guardava fuori dal finestrino, sgranando gli occhi come i bambini: ogni paese, ogni lungolago s’intuiva come apparissero ai suoi occhi come delle straordinarie scoperte. Francamente  non è che, oltrepassate Gravellona Toce e Feriolo, Baveno e Stresa il paesaggio fosse così vario e mutevole. Posti belli, da cartolina, per carità; niente da dire ma abbastanza noti per non dire scontati, agli occhi di chi viveva lì o nei dintorni. Eppure era evidente che a lui si presentavano come una tal novità da disegnargli sul viso imbambolato un largo sorriso.  Del resto, in vita sua aveva viaggiato ben poco, a parte il gran camminare su e giù per le sale d’alberghi e ristoranti, obbligato dal suo lavoro di cameriere. Passati sulla sponda orientale del Maggiore, in terra lombarda, sembrò riprendere vita, riconoscendo i luoghi della prosa di Chiara. Così, fino a Luino, dove  parcheggiammo l’auto  nel grande spiazzo sterrato sul lungolago. Da lì, a piedi, in un attimo la nostra meta venne raggiunta: il “mitico” Caffè Clerici.

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Così, seduti a un tavolino esterno, guardando il lago, Quinto prese dalla tasca un libro e – partendo da dove aveva messo un vecchio biglietto del treno come segnalibro – iniziò a leggere: “….Volle sapere qualche cosa di più sul Caffè Clerici, che le parve un’istituzione degna d’interesse. Glielo descrissi, vicino al porto, sul quale si affacciava da un portichetto, coi tavolini di ferro e i miei amici seduti intorno fin dalla mattina. Le barche che andavano e venivano, la gente che passava, il biliardo dentro al caffè, in attività tutto il giorno e il giardinetto inghiaiato sempre in ombra dietro, con le piante concimate con i fondi di caffè nelle mezze botti dipinte di verde”. Alzando gli occhi, quasi s’accorgesse allora della mia presenza, mi disse: “Hai notato? Guardati attorno: non è più o meno com’è oggi?”. In effetti la descrizione della Luino che Piero Chiara aveva tratteggiato ne “ Il cappotto di astrakan”, non era dissimile da quanto si poteva vedere in quel momento. Il Caffè Clerici era rimasto più o meno lo stesso e non si faticava ad immaginare come lo scrittore avesse organizzato il suo “ufficio” tra i tavolini della sala. Era il suo, immaginario,  “buco della serratura” dal quale poteva sbirciare e indagare la poliedrica umanità luinese. Quella  che poi, consapevole o meno, gli aveva offerto la materia prima per confezionare le sue storie. E il molo,  quello dove arrivavano le raffiche e si potevano distinguere tutti i sentori che il vento, scendendo dalla Svizzera, raccoglieva lungo le valli della sponda piemontese ? Era proprio quello che stava lì, davanti a noi. A fianco dell’imbarcadero, dopo lo “spazio di rispetto” che apparteneva alla Società di Navigazione, si apriva il porto delle barche,  “coi suoi moli convergenti che terminavano in due torrette dal parapetto ad altezza di gamba”.

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A dire il vero erano poche le barche allineate contro la riva, mentre un paio di burchielli stavano lì in secca, arrampicati sulla rampa erbosa, poco distanti da una lancia da lago che stava pancia all’aria, capovolta sui cavalletti, ad asciugarsi le fiancate  verniciate di fresco. Sorseggiamo due “bianchini”, corretti con un’ombra di Campari, e guardammo entrambi un uomo piuttosto robusto intento a pescare con una canna fissa dal muraglione di pietra antica del porticciolo. “Guarda un po’ quel tipo. Non sembra mica il Brovelli, quello lì? Sì, il Brovelli: quello del “Ti sento, Giuditta”? ”. La stazza doveva esser suppergiù   la stessa del personaggio del racconto di Chiara e la suggestione poteva indurre a chiamarlo per nome ( “Signor Amedeo.. Amedeo Brovelli..”) ma evitammo di farlo. Un pò per non far figure, un pò perché – qualora si fosse voltato verso di noi – non  avremmo saputo che dire. Annusammo anche noi l’aria, quasi istintivamente. Non sentimmo nulla. Non intercettammo nessun odore: né dei sigari di Brissago, né delle bestie della Val Cannobina e nemmeno delle fragranti michette sfornate a Cannobio. “Mi sa che siamo anche noi come il ragazzo a cui il Brovelli aveva insegnato l’arte del “fiuto dell’aria”, disse Quindo, sconsolato.  Quella storia la conoscevamo entrambi, quasi a memoria. Le parole, affidate alla penna di Chiara, dai ricordi vennero in superficie : “…passai mattine intere sul molo per risentire gli odori; ma avessi dimenticato la posizione esatta o l’angolo giusto, non mi riuscì di sentire mai altro che l’odore d’acqua e quasi di luce che ha sempre il vento al mio paese”. Pagata la consumazione al Caffè, gironzolammo per Luino alla ricerca di qualche frammento di quell’atmosfera  di vento e bonacce, acqua di lago e tetti lastricati di beole. C’erano ancora i balconi sporgenti dove vivacissimi gerani si mettono in mostra e anche i vecchi cancelli dietro ai quali s’intravedevano i bei giardini delle dimore signorili , traboccanti di verde e di glicini.

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Molti dei luoghi di Chiara, nel tempo, erano cambiati: l’albergo Metropole, dove ai suoi tavoli, con accanimento e passione, si giocavano interminabili partiti a carte, ora portava il nome di Palazzo Verbania e  al piano terra ospitava mostre e conferenze. C’era ancorala statua di Garibaldi, la prima ad essergli stata dedicata in Italia, nel 1867,  quando l’eroe dei due mondi era ancora in vita. Anche Chiara, ne “Il piatto piange”, fa cenno a questa singolare vicenda con una certa ironia, raccontando a modo suo l’episodio storico avvenuto il 15 agosto del 1848, durante la prima guerra di indipendenza italiana. Giunto a Luino con un manipolo di camicie rosse per scacciare gli austriaci, dopo aver attraversato il lago a bordo di due battelli sequestrati ad Arona,  Garibaldi  dovette far ricorso alla farmacia Clericiper avere, in fretta e furia , un rimedio contro la dissenteria che aveva colpito a tradimento l’eroe “dei due mondi”. Girammo e  girammo ma di quegli alberghetti collocati in posizione strategica, vicino alla penultima stazione ferroviaria prima del confine svizzero, dove s’incontravano le coppie clandestine, non c’era più nemmeno l’ombra. Gli anni si sono portati via, in una caotica progressione, tutto quel mondo di chiacchiere e confidenze nei caffè e nelle osterie dove s’ingannava il tempo con interminabili partite a carte, scherzi e beffe alle spalle dei cornuti, mordaci canzonature, piccoli scandali e pettegolezzi dove i condimenti erano sempre tre: sesso, quattrini e debiti. Quinto scrutava i passanti che incontravamo, alla ricerca di un indizio che ci svelasse la loro vera identità. Mi parve deluso dal fatto di non intravedere quell’umanità di perdigiorno, sciupafemmine, truffatori, madame procaci e sensuali che aveva conosciuto grazie ai racconti dell’uomo che più di altri aveva sdoganato la provincia e le sue storie. Per consolarci ci concedemmo una lauta merenda al Clerici come s’usava un tempo: pane e frittura di lago, un litro di bianco e due grappini all’erba ruga, alla ruta, per “buttar giù il peso dallo stomaco”. Lasciammo Luino quasi al tramonto. Guidavo l’auto senza fretta e quest’ultima si mangiava la strada a piccoli morsi, muovendosi con un dondolio da barca, quasi fosse in riserva e occorresse sfiorare leggermente l’acceleratore per non  restare a secco. Si tornava verso casa. Arrivederci alla prossima, signor Brovelli.

 

Marco Travaglini

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