Natale in Terra Santa

FOCUS  INTERNAZIONALE di Filippo Re

É Natale in Terra Santa, a Gerusalemme, a Betlemme, a Gaza e nei Territori palestinesi, anche se in tono minore per il clima di scontro che si è acceso sulla questione della Città Santa. Nella tradizionale lettera di fine anno i capi religiosi delle chiese locali ribadiscono il loro appello a proteggere lo status quo di Gerusalemme, “dono sacro per tutto il mondo”, fino a un giusto accordo di pace fra israeliani e palestinesi. É Natale anche nelle terre martoriate della Siria e dell’Iraq. Anche qui si attende la nascita di Gesù in un clima di festa e di speranza nonostante la grandi difficoltà del momento. Come nel monastero di Deir Mar Musa, 80 km a nord di Damasco, dove le luci del Natale accolgono i pellegrini. Nella Siria disastrata da sei anni di guerra cristiani e musulmani si ritrovano di nuovo nel convento fondato da Paolo Dall’Oglio, il gesuita romano rapito nel 2103 nella zona di Raqqa e scomparso nel nulla. Lo fanno sapere i monaci e le monache della comunità monastica che promuove il dialogo tra cristianesimo e islam in una lettera natalizia in cui raccontano i preparativi per le feste imminenti. Sono numerose le famiglie cristiane e musulmane che in questi giorni salgono insieme al convento che ha vissuto periodi travagliati prima con il regime siriano e poi a causa della follia jihadista. La comunità comprende anche il monastero di Mar Elian nel governatorato di Homs, distrutto dagli islamisti nell’estate del 2015. Un messaggio di speranza giunge anche dalla piana di Ninive in Iraq dove l’Isis, nonostante la ferocia mostrata durante l’occupazione contro i musulmani e le minoranze, non è riuscito a cancellare la presenza cristiana.

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Nel villaggio di Tellskuf è rinata la chiesa di San Giorgio che era stata distrutta e profanata dai miliziani del califfo. I jihadisti sono stati cacciati e i cristiani sono tornati e ora possono pregare di nuovo nella loro chiesa ricostruita con i fondi stanziati dall’associazione Aiuto alla chiesa che soffre (Acs). Nonostante tragedie, violenze e immense sofferenze ci sono ancora le energie per preparare degnamente il Natale. Spuntano presepi nelle case e nelle strade, addobbi natalizi un po’ ovunque e le chiese sono pronte per la messa della vigilia. Ultimi preparativi anche nei villaggi cristiani della piana di Ninive già rimessi in sesto, almeno parzialmente, dai volontari e dai tecnici inviati sul posto dall’Acs grazie ai quali oltre il 30% dei cristiani, circa 6000 famiglie, sono rientrati nelle proprie abitazioni. Il paese più fortunato è Tellskuf, presso Mosul, che un anno fa era un villaggio fantasma e distrutto in gran parte, e ora il 70% delle famiglie, quasi tutti cristiani caldei, vi ha fatto ritorno. L’immediato restauro della chiesa di San Giorgio e della statua della Madonna decapitata dai fanatici dell’Isis ha segnato la ripresa delle attività della Chiesa. Tellskuf fu occupata dai miliziani dell’Isis nell’estate 2014 ma la sua sorte fu meno drammatica rispetto a quella di tanti altri paesi abitati da cristiani e yazidi attorno a Ninive. Fu ripresa dai peshmerga curdi dopo poche settimane e divenne una linea del fronte tra i combattenti iracheni di Barzani e le forze del Califfo che più volte attaccarono senza successo la roccaforte curda. Gli abitanti erano nel frattempo fuggiti ad Alqosh o a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno. La rinascita della piana di Ninive liberata dall’Isis si avverte anche nella cittadina di Karamles dove quasi 300 famiglie sono rientrate nelle loro case e vivono con gioia l’attesa del Natale, come essere usciti da un lungo incubo durato tre anni.

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Oggi la loro vita sta tornando lentamente alla normalità e i sacerdoti caldei, sopravvissuti alla ferocia dei tagliateste di Al Baghdadi, hanno celebrato le prime funzioni religiose in attesa del Natale. I problemi non mancano e sono comuni a tutti i paesi della piana di Ninive. Centinaia di case, incendiate e bombardate, devono essere ricostruite e mancano quasi del tutto i servizi pubblici come il riscaldamento e l’elettricità che viene erogata poche ore al giorno. Servono denaro e tempo ma ciò che le chiese irachene temono di più è l’instabilità politica della regione a causa della quale molti cristiani sono scappati all’estero in questi ultimi anni e difficilmente torneranno nelle loro terre. Quasi 250.000 caldei vivono già negli Stati Uniti e 50.000 in Australia e la fuga potrebbe continuare. Anche ad Aleppo nella vicina Siria, città martoriata per anni e semi-distrutta, la vita riprende a poco a poco. L’appello del vescovo caldeo Antoine Audo, ai donatori internazionali, ai ricchi del mondo, è esplicito: ” la mia Aleppo riprende vita ma dipendiamo ancora dal vostro aiuto. Vi prego, sostenete i pochi cristiani rimasti in modo che possano continuare a restare in Siria”. I danni in città sono enormi. La fornitura di acqua e luce è stata ripristinata anche se i blocchi sono frequenti. In città la paura del nemico sembra scomparsa e vi è una lenta ripresa delle attività ma i cristiani rimasti sono pochi. Erano 150.000 e ora sono 40 mila. Anche le chiese, gli ospedali e gli ambulatori sono dimezzati dopo il conflitto, trovare medicine non è facile e l’80% dei medici ha abbandonato la Siria. Anche ad Aleppo i volontari e i tecnici dell’Acs portano avanti un lavoro ammirevole e tra i progetti della campagna di Natale vi è anche il sostegno all’ospedale Saint Louis diretto dalle suore di san Giuseppe dell’Apparizione, uno dei pochi rimasti in piedi dopo i massicci bombardamenti. Il premier irakeno Al Abadi ha annunciato con grande enfasi la fine della guerra contro l’Isis ma ciò che sopravvive è l’ideologia jihadista radicata almeno in una parte della popolazione. “La guerra santa, si legge nei siti della propaganda del Daesh, proseguirà senza interruzioni”. Senza il ritorno alla stabilità politica ed economica la minaccia del terrorismo sarà sempre dietro l’angolo e l’Isis tornerà con un altro nome e un altro volto feroce.

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La sconfitta del Califfato segnerà davvero il ritorno dei cristiani? Alcuni sono già tornati e altri torneranno ma in questi territori non si formerà di nuovo quel mosaico multietnico di cristiani, yazidi e di altre minoranze che ha contraddistinto per secoli la vita di questa regione. La storia dei cristiani d’Oriente sembra prossima alla fine e per riportarci i cristiani ci vorrebbe forse quel “piano Marshall” che il segretario di Stato vaticano Parolin invoca da tempo. Nel frattempo gli attacchi contro i cristiani non cessano neanche alla vigilia delle festività natalizie. Natale di sangue in Pakistan per un attacco kamikaze contro una chiesa cristiana metodista a Quetta con centinaia di persone che stavano seguendo la funzione religiosa. Sono morti tredici fedeli e altri 55 sono rimasti feriti. Poteva essere una strage molto più grave e solo la pronta risposta della polizia ha evitato lutti maggiori. I pakistani celebrano il Natale molto intensamente e tutte le chiese organizzano varie attività per l’intero mese di dicembre. Nella provincia pakistana del Beluchistan spadroneggiano gruppi armati di separatisti, talebani e gruppi jihadisti e gli attacchi contro le minoranze religiose sono frequenti. Il capo dell’esercito ha parlato di “attacco ai nostri fratelli cristiani” nel tentativo di “rovinare le celebrazioni natalizie”. Timori di attentati durante le festività natalizie anche in Egitto dove il governo ha mobilitato le forze di sicurezza in tutto il Paese. La comunità copta cristiana fu duramente colpita nella domenica delle Palme con gravissimi attentati contro due chiese, a Tanta, a nord del Cairo e ad Alessandria, di fronte alla cattedrale di San Marco.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

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