Una serata (molto) anti Trump, tutti gli applausi per la compagine all black di Moonlight

Altro che the winner is! uno scambio di busta, gli incartapecoriti quanto stralunati Warren Beatty e Faye Dunaway, alla faccia dei bei tempi di Gangster Story, che si guardano per una manciata di secondi ed eccoli lì a decretare La La Land come best picture mentre al contrario i gusti del meccanismo cinematografico continuamente prosperante nello stato americano che comincia a sognare una Calexit hanno già deciso che il miglior film dell’anno è Moonlight di Barry Jenkins. Nemmeno il pensiero di mettere la testa al di là delle quinte, chiedere uno straccio di spiegazione, ritrovarsi tra le mani un’altra volta il nome di Emma Stone già premiata prima come migliore attrice protagonista proprio per la sua ragazza piena di sogni di La La Land e riabbinarlo al film.

Un pastrocchio, subito inondato di scuse da parte della PricewaterhouseCoopers che controlla le votazioni e ha il compito di consegnare le buste fatidiche, che a qualcuno potrebbe anche far sorgere il dubbio di uno sgarbo dell’ultima ora a Mr. President, che certo, se mai avesse seguito la cerimonia, non avrebbe visto di buon occhio tutti quegli uomini e donne di cinema all black a festeggiare e a baciarsi e ad abbracciarsi sul palcoscenico tutto lustrini del Dolby Theatre. Incidente che fisserà la 89ma edizione degli Oscar negli annali della storia del cinema. Nulla di disastroso, per carità, ma sono cose che nell’universo sfavillante delle statuette più ambite segnano uno scossone, un inciampo, un mancamento. Un incidente che ha l’abito del lapsus bell’e buono, scappato di bocca, con una vecchia Hollywood che reclama la nostalgia e i buoni sentimenti e quella nuova e decisamente più concreta – visceralmente concreta – che srotola quartieri malfamati, spacciatori, madri drogate, ragazzini che sono vittime di bullismo e avviati a scoprire poco a poco la propria omosessualità, pronti in mezzo alle loro debolezze a rifugiarsi in quel pantano pur di sopravvivere. Proprio quel mondo che per Mr. Donald Trump è fumo negli occhi, è il moscone che ti ronza intorno e non vedi l’ora di schiacciare contro il muro.

Non ci spaventa il diverso genere ma chi scrive continua a tifare, a giochi ormai fatti, per la storia tutta musiche e sospiri di Damien Chazelle – sei riconoscimenti, oltre la Stone, la miglior regia, la colonna sonora a Justin Hurwitz, quel fiore di canzone che è City of Stars che senti (o ti viene in mente di) canticchiare anche quando sei in coda al supermercato o alla posta, fotografia e scenografia -, per la leggerezza che si porta dentro, per i rimandi al cinema di Fred Astaire e Ginger Rogers e altri, Jacques Demy dei Parapluies de Cherbourg in testa, per la fluidità del racconto, per quell’impronta di sogno americano perennemente inseguito e raggiunto, per le soluzioni e l’amalgama perfetto che Chazelle ha impresso alla storia, per i numeri di ballo mozzafiato. Non ci spaventa il diverso genere ma quel premio a Mahershala Ali, il padre putativo di Moonlight, di colore e musulmano, ci pare voler mettere carne sullo stesso fuoco a tutti costi (magari andava premiata la eccellente prova di Naomi Harris, anche lei attrice di colore, la madre inguaiata fino al collo, che però andava a scontrarsi con la Viola Davis di Barriere, che infatti ha agguantato la statuetta) un’interpretazione non più che corretta, quando in campo c’era ad esempio una giovane promessa come Lucas Hedges con il suo ragazzo infelice e ribelle di Manchester by the sea. Film che al contrario, s’è portato a casa anche la miglior sceneggiatura originale, ha visto giustamente coronare la maiuscola interpretazione di Casey Affleck, mai così perfetto, umanamente contratto nei sentimenti, nelle ribellioni, nei silenzi della solitudine.

Il 2017 segnerà una frattura nel mondo degli Oscar, una spallata consistente in accordo con i tempi e in disaccordo con chi regge il timone, compatta e lontana da quegli esempi buttati qua e là, lungo gli anni, da Hattie McDaniel in poi. In questa edizione che ha preso le distanze da quella passata e che vede un’Academy certo non più accusabile con una campagna OscarSoWhite, la compagine all black avanza compatta a prendersi gli applausi mentre Mel Gibson guarda un orizzonte parecchio lontano, tuttavia forte del suo antimilitarismo e dei premi ai migliori montaggio e sonoro. Dal cuore asiatico resta a guardare l’iraniano Asghar Farhadi mentre altri si vedono consegnare la statuetta per il miglior film straniero per il suo Il cliente, Fuocoammare del nostro Rosi, dopo tanto sperare, dopo tante campagne di affettività sponsorizzate dalla “sopravvalutata” Meryl Streep cui il pubblico del Dolby ha decretato una standing ovation senza pari, è rimasto a bocca asciutta, semmai se la sono meglio cavata Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini con Christopher Nelson truccatori che felicissimi hanno stretto in mano il loro Oscar per Suicide Squad. E il nostro apporto all’estero è salvo.

 

Elio Rabbione

 

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